Il movimento di questi ragazzi
Luigi Manconi
E se questo movimento studentesco non si esaurisse con la giornata di oggi? Se, cioè, la definitiva approvazione della cosiddetta riforma Gelmini non bruciasse una volta per tutte le aspettative e le energie della mobilitazione? È possibile. In altre parole, è possibile che, dopo alcuni decenni di fuochi fatui e dopo molte avvisaglie non concretizzatesi e dopo agitazioni tumultuose ma gracili, questa volta un movimento giovanile e studentesco riesca a rafforzarsi, riprodursi nel tempo e insediarsi con radici robuste nel tessuto sociale. Certo, è altrettanto possibile che nulla di tutto ciò accada e che questa mobilitazione si concluda come, in precedenza, si sono concluse quelle dei movimenti degli anni ’80 e ’90, come la Pantera e l’Onda. Sono due i fattori che consentono di ipotizzare un esito diverso. Il primo è rappresentato dalla dimensione non esclusivamente italiana del fenomeno: manifestazioni di massa, a composizione non solo studentesca, si sono registrate negli ultimi mesi e settimane in molti paesi europei, con connotati simili. Il secondo, rilevantissimo fattore è costituito dallo scenario nel quale si sviluppa la mobilitazione, segnato dagli effetti di una profondissima crisi economica. Pressoché tutti gli altri movimenti studenteschi della storia italiana, e non solo italiana, si aggregavano in periodi di risorse affluenti e di aspettative crescenti. Alla fine degli anni ’60 il movimento si formava in una scuola diventata infine di massa e in una società che infine conosceva il benessere e il consumismo. Erano movimenti sostanzialmente ottimisti, proiettati verso il futuro, tesi a immaginare e a tentare di afferrare, in qualche modo, una prospettiva di maggiore ricchezza. Ricchezza di beni materiali e di conoscenze intellettuali, di opportunità sociali e di spazi di libertà, di diritti individuali e di garanzie collettive. (E, nei paesi dell’Est, i movimenti studenteschi hanno contribuito potentemente alla democratizzazione di regimi non democratici). Potevano fallire, come è accaduto, ma lasciavano una traccia: profonda, profondissima, quale quella impressa sul corpo della società italiana. Quei movimenti, certo, non hanno “fatto la rivoluzione” – e come potevano? – ma hanno contribuito, più di qualunque altro soggetto, a modernizzare la comunità nazionale, le relazioni sociali e gli stili di vita. Anche i movimenti successivi hanno operato in una condizione di relativo benessere, dove il conflitto ruotava intorno ai criteri di distribuzione di risorse (materiali e immateriali) che tendevano a scarseggiare, ma che pure rappresentavano una apprezzabile posta in gioco. Oggi non è più così. La frase che più spesso si sente ripetere da chi partecipa ai cortei, “ci negano il futuro”, sarà pure retorica e farà arricciare il delizioso nasino del ministro Gelmini, ma allude a una verità brutale. In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa, nel sud è ancora maggiore e tra le donne meridionali cresce ulteriormente. Il paesaggio è né più né meno che desolante. Il movimento giovanile studentesco di questi mesi sembra il solo capace di resistere a una sindrome depressiva sociale e psicologica, collettiva e individuale. E di contrastare la miseria, considerata come scrivevano nel 1966 gli studenti di Strasburgo, nell’opuscolo De la misère en milieu étudiant «nei suoi aspetti economici, psicologici, politici, sessuali e in particolare intellettuali». Infine, c’è la questione della violenza. È superfluo qui, poi insistere sulla condanna: va da sé. Ma è altrettanto ovvio che la violenza è l’espressione maldestra e deforme, che può arrivare a farsi criminale, di un bisogno di comunicazione, tanto più destinato a diventare sopraffazione quanto più si scopra impotente perché inascoltato. La violenza, in particolare, è totalmente improduttiva perché immorale e immorale perché totalmente improduttiva (è questo il fondamento più robusto della nonviolenza). La manifestazione di martedì 14 scorso trasmetteva una sorta di aspra malinconia, forse perché la violenza è sempre cupa in quanto incapace di emancipazione per sé e per gli altri. Ma la violenza del movimento del ’77 si alternava a importanti espressioni di creatività e di fantasia, perché comunque, cercava una proiezione in avanti, nello spazio e nel tempo. Ora, è infinitamente più difficile. È come se quella violenza fosse la manifestazione di una afasia (dei giovani) e di una sordità (degli adulti). Oggi è il tempo delle passioni tristi, secondo la notissima formulazione di Spinoza, ripresa alla lettera da Vasco Rossi (sì, Vasco Rossi) nel suo concerto all’Olimpico del 29 maggio 2008: «chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza». Nonostante tutto, questa è una stagione di grandi passioni: tocca alla politica e, forse ancor prima ai movimenti sociali, far sì che quella passione si liberi dalla tristezza e trovi una via magari tortuosa e certamente faticosa per continuare a immaginare un futuro.
Nessuno può dirlo con certezza, ma è altamente probabile che, tra il 1967 e il 1969, non si sarebbe trovata una delegazione di studenti disposta a recarsi a un incontro con l’allora Capo dello Stato. Non si ceda alla facile ironia sulla distanza incolmabile tra il presidente dell’epoca, Giuseppe Saragat, e quello attuale, Giorgio Napolitano: è un elemento importante, ma a inibire anche solo l’eventualità di un simile incontro, 40 anni fa, era altro. Ovvero l’irriducibile dimensione anti-istituzionale di quel movimento. Qui emerge una prima differenza. I movimenti della fine degli anni ‘60 hanno scambiato spesso il proprio bisogno di radicalità nell’analisi e nel programma con l’estremismo gestuale e vocale della retorica rivoluzionaria. È una tentazione sempre ricorrente: ed è possibile che, oggi, anche l’incontro col presidente Napolitano non sia piaciuto a una parte significativa del movimento attuale; e tanto meno piacerà quando, com’è ovvio, Napolitano non accetterà l’invito a «non firmare» la legge Gelmini. Eppure, l’importanza di quell’incontro al Quirinale non può essere sottovalutata: la più alta carica dello Stato ha voluto «ascoltare» chi, giustamente, lamentava di non essere stato ascoltato per mesi e anni.
Se il movimento capirà la portata di questa vittoria – che è simbolica e pratica insieme – intenderà meglio quale possa essere un equilibrato rapporto tra radicalità (nell’analisi e nel programma) e capacità riformatrice. Alla fine degli anni ’60, quel nesso non fu adeguatamente compreso dal movimento studentesco italiano, mentre veniva intuito e praticato da quello tedesco. L’idea di «lunga marcia attraverso le istituzioni», elaborata dall’Sds di Rudi Dutschke, alludeva a quella prospettiva: e sin dalla formula linguistica (dove la «lunga marcia» di derivazione maoista si applicava al sistema delle istituzioni democratiche) intendeva coniugare l’aspirazione rivoluzionaria e la concreta pratica della trasformazione possibile, qui e ora. Già la categoria di «lunga marcia» negava il concetto di rivoluzione come putsch e colpo di Stato e prevedeva tempi lunghi. Questo portò il movimento studentesco tedesco ad adottare una sorta di riformismo radicale, fatto di realismo e pragmatismo e tutto giocato sulla capacità di aggirare il potere, di evitare lo scontro frontale, di ampliare l’area della mobilitazione, il numero degli interlocutori, i progetti di trasformazione da perseguire. Questo ha fatto sì che dal ’70 in avanti in Germania si sviluppasse una estesa rete di iniziative e movimenti «alternativi»: non concentrati sul potere centrale e i suoi apparati, bensì diffusi lungo l’infinita articolazione del sistema delle istituzioni e delle agenzie di socializzazione; e qui si producevano culture ed esperienze critiche, radicalmente diverse da quelle dominanti.
Se trasferissimo tutto ciò all’oggi e lo traducessimo in una cartografia di repertori di azione, modalità di comportamento e forme di lotta, percorsi e obiettivi, si avrebbe la rappresentazione puntuale delle manifestazioni dell’altro ieri a Roma. Ovvero: ritenere la miserevole piazza d’armi della zona rossa come una posta in gioco non degna di interesse; lo «spiazzamento» come tecnica di strada e, insieme, come strategia di evasione dal braccio di ferro dello scontro fisico; il metodo dell’abbraccio che «contiene» e controlla l’avversario irruente, ma anche il figlio aggressivo e che impaccia, con i fiori, i corpi in tuta antisommossa dei poliziotti; la periferia in luogo del centro e la Cgil e l’Atac in luogo del blindato della guardia di finanza. Ora arriva il bello, che è poi il brutto: cioè il più difficile. Tutti i movimenti collettivi dipendono in misura rilevante dall’obiettivo perseguito. Nel caso di questo movimento, il bersaglio (la sconfitta della legge Gelmini) è stato mancato. Potrebbe derivarne frustrazione e smobilitazione. Ma qui potrebbe soccorrere proprio quella capacità di spiazzamento di cui si è detto. Dopo tutto, che quella riforma passasse era abbastanza prevedibile e, comunque, quella stessa riforma – in una stagione di vacche magre e risorse scarse – è destinata a creare più acuti squilibri, esaltando quella natura classista dell’università emersa nitidamente negli ultimi decenni. Diventa preziosa, pertanto, la capacità di «marciare dentro le istituzioni» e di praticare la gramsciana guerra di posizione per conquistare le «casematte». Ci vuole pazienza, infinita pazienza, e una altrettanto tenace ironia.
Il movimento di questi ragazzi
Luigi Manconi

22 dicembre 2010
E se questo movimento studentesco non si esaurisse con la giornata di oggi? Se, cioè, la definitiva approvazione della cosiddetta riforma Gelmini non bruciasse una volta per tutte le aspettative e le energie della mobilitazione? È possibile. In altre parole, è possibile che, dopo alcuni decenni di fuochi fatui e dopo molte avvisaglie non concretizzatesi e dopo agitazioni tumultuose ma gracili, questa volta un movimento giovanile e studentesco riesca a rafforzarsi, riprodursi nel tempo e insediarsi con radici robuste nel tessuto sociale. Certo, è altrettanto possibile che nulla di tutto ciò accada e che questa mobilitazione si concluda come, in precedenza, si sono concluse quelle dei movimenti degli anni ’80 e ’90, come la Pantera e l’Onda. Sono due i fattori che consentono di ipotizzare un esito diverso. Il primo è rappresentato dalla dimensione non esclusivamente italiana del fenomeno: manifestazioni di massa, a composizione non solo studentesca, si sono registrate negli ultimi mesi e settimane in molti paesi europei, con connotati simili. Il secondo, rilevantissimo fattore è costituito dallo scenario nel quale si sviluppa la mobilitazione, segnato dagli effetti di una profondissima crisi economica. Pressoché tutti gli altri movimenti studenteschi della storia italiana, e non solo italiana, si aggregavano in periodi di risorse affluenti e di aspettative crescenti. Alla fine degli anni ’60 il movimento si formava in una scuola diventata infine di massa e in una società che infine conosceva il benessere e il consumismo. Erano movimenti sostanzialmente ottimisti, proiettati verso il futuro, tesi a immaginare e a tentare di afferrare, in qualche modo, una prospettiva di maggiore ricchezza. Ricchezza di beni materiali e di conoscenze intellettuali, di opportunità sociali e di spazi di libertà, di diritti individuali e di garanzie collettive. (E, nei paesi dell’Est, i movimenti studenteschi hanno contribuito potentemente alla democratizzazione di regimi non democratici). Potevano fallire, come è accaduto, ma lasciavano una traccia: profonda, profondissima, quale quella impressa sul corpo della società italiana. Quei movimenti, certo, non hanno “fatto la rivoluzione” – e come potevano? – ma hanno contribuito, più di qualunque altro soggetto, a modernizzare la comunità nazionale, le relazioni sociali e gli stili di vita. Anche i movimenti successivi hanno operato in una condizione di relativo benessere, dove il conflitto ruotava intorno ai criteri di distribuzione di risorse (materiali e immateriali) che tendevano a scarseggiare, ma che pure rappresentavano una apprezzabile posta in gioco. Oggi non è più così. La frase che più spesso si sente ripetere da chi partecipa ai cortei, “ci negano il futuro”, sarà pure retorica e farà arricciare il delizioso nasino del ministro Gelmini, ma allude a una verità brutale. In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa, nel sud è ancora maggiore e tra le donne meridionali cresce ulteriormente. Il paesaggio è né più né meno che desolante. Il movimento giovanile studentesco di questi mesi sembra il solo capace di resistere a una sindrome depressiva sociale e psicologica, collettiva e individuale. E di contrastare la miseria, considerata come scrivevano nel 1966 gli studenti di Strasburgo, nell’opuscolo De la misère en milieu étudiant «nei suoi aspetti economici, psicologici, politici, sessuali e in particolare intellettuali». Infine, c’è la questione della violenza. È superfluo qui, poi insistere sulla condanna: va da sé. Ma è altrettanto ovvio che la violenza è l’espressione maldestra e deforme, che può arrivare a farsi criminale, di un bisogno di comunicazione, tanto più destinato a diventare sopraffazione quanto più si scopra impotente perché inascoltato. La violenza, in particolare, è totalmente improduttiva perché immorale e immorale perché totalmente improduttiva (è questo il fondamento più robusto della nonviolenza). La manifestazione di martedì 14 scorso trasmetteva una sorta di aspra malinconia, forse perché la violenza è sempre cupa in quanto incapace di emancipazione per sé e per gli altri. Ma la violenza del movimento del ’77 si alternava a importanti espressioni di creatività e di fantasia, perché comunque, cercava una proiezione in avanti, nello spazio e nel tempo. Ora, è infinitamente più difficile. È come se quella violenza fosse la manifestazione di una afasia (dei giovani) e di una sordità (degli adulti). Oggi è il tempo delle passioni tristi, secondo la notissima formulazione di Spinoza, ripresa alla lettera da Vasco Rossi (sì, Vasco Rossi) nel suo concerto all’Olimpico del 29 maggio 2008: «chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza». Nonostante tutto, questa è una stagione di grandi passioni: tocca alla politica e, forse ancor prima ai movimenti sociali, far sì che quella passione si liberi dalla tristezza e trovi una via magari tortuosa e certamente faticosa per continuare a immaginare un futuro.
24 dicembre 2010
Nessuno può dirlo con certezza, ma è altamente probabile che, tra il 1967 e il 1969, non si sarebbe trovata una delegazione di studenti disposta a recarsi a un incontro con l’allora Capo dello Stato. Non si ceda alla facile ironia sulla distanza incolmabile tra il presidente dell’epoca, Giuseppe Saragat, e quello attuale, Giorgio Napolitano: è un elemento importante, ma a inibire anche solo l’eventualità di un simile incontro, 40 anni fa, era altro. Ovvero l’irriducibile dimensione anti-istituzionale di quel movimento. Qui emerge una prima differenza. I movimenti della fine degli anni ‘60 hanno scambiato spesso il proprio bisogno di radicalità nell’analisi e nel programma con l’estremismo gestuale e vocale della retorica rivoluzionaria. È una tentazione sempre ricorrente: ed è possibile che, oggi, anche l’incontro col presidente Napolitano non sia piaciuto a una parte significativa del movimento attuale; e tanto meno piacerà quando, com’è ovvio, Napolitano non accetterà l’invito a «non firmare» la legge Gelmini. Eppure, l’importanza di quell’incontro al Quirinale non può essere sottovalutata: la più alta carica dello Stato ha voluto «ascoltare» chi, giustamente, lamentava di non essere stato ascoltato per mesi e anni.
Se il movimento capirà la portata di questa vittoria – che è simbolica e pratica insieme – intenderà meglio quale possa essere un equilibrato rapporto tra radicalità (nell’analisi e nel programma) e capacità riformatrice. Alla fine degli anni ’60, quel nesso non fu adeguatamente compreso dal movimento studentesco italiano, mentre veniva intuito e praticato da quello tedesco. L’idea di «lunga marcia attraverso le istituzioni», elaborata dall’Sds di Rudi Dutschke, alludeva a quella prospettiva: e sin dalla formula linguistica (dove la «lunga marcia» di derivazione maoista si applicava al sistema delle istituzioni democratiche) intendeva coniugare l’aspirazione rivoluzionaria e la concreta pratica della trasformazione possibile, qui e ora. Già la categoria di «lunga marcia» negava il concetto di rivoluzione come putsch e colpo di Stato e prevedeva tempi lunghi. Questo portò il movimento studentesco tedesco ad adottare una sorta di riformismo radicale, fatto di realismo e pragmatismo e tutto giocato sulla capacità di aggirare il potere, di evitare lo scontro frontale, di ampliare l’area della mobilitazione, il numero degli interlocutori, i progetti di trasformazione da perseguire. Questo ha fatto sì che dal ’70 in avanti in Germania si sviluppasse una estesa rete di iniziative e movimenti «alternativi»: non concentrati sul potere centrale e i suoi apparati, bensì diffusi lungo l’infinita articolazione del sistema delle istituzioni e delle agenzie di socializzazione; e qui si producevano culture ed esperienze critiche, radicalmente diverse da quelle dominanti.
Se trasferissimo tutto ciò all’oggi e lo traducessimo in una cartografia di repertori di azione, modalità di comportamento e forme di lotta, percorsi e obiettivi, si avrebbe la rappresentazione puntuale delle manifestazioni dell’altro ieri a Roma. Ovvero: ritenere la miserevole piazza d’armi della zona rossa come una posta in gioco non degna di interesse; lo «spiazzamento» come tecnica di strada e, insieme, come strategia di evasione dal braccio di ferro dello scontro fisico; il metodo dell’abbraccio che «contiene» e controlla l’avversario irruente, ma anche il figlio aggressivo e che impaccia, con i fiori, i corpi in tuta antisommossa dei poliziotti; la periferia in luogo del centro e la Cgil e l’Atac in luogo del blindato della guardia di finanza. Ora arriva il bello, che è poi il brutto: cioè il più difficile. Tutti i movimenti collettivi dipendono in misura rilevante dall’obiettivo perseguito. Nel caso di questo movimento, il bersaglio (la sconfitta della legge Gelmini) è stato mancato. Potrebbe derivarne frustrazione e smobilitazione. Ma qui potrebbe soccorrere proprio quella capacità di spiazzamento di cui si è detto. Dopo tutto, che quella riforma passasse era abbastanza prevedibile e, comunque, quella stessa riforma – in una stagione di vacche magre e risorse scarse – è destinata a creare più acuti squilibri, esaltando quella natura classista dell’università emersa nitidamente negli ultimi decenni. Diventa preziosa, pertanto, la capacità di «marciare dentro le istituzioni» e di praticare la gramsciana guerra di posizione per conquistare le «casematte». Ci vuole pazienza, infinita pazienza, e una altrettanto tenace ironia.
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