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slegami
burattino

Il cattivismo al potere

Devo riconoscere che l’insopportabile sarcasmo reazionario contro la retorica dei diritti e l’enfasi dell’umanitarismo finisce con l’avere, suo malgrado, un fondo di verità. Un fondo, forse, insospettabile e imprevedibile che si rivela in una singolare procedura, ormai assai diffusa. L’evoluzione dell’opinione pubblica e l’acquisizione da parte di essa di un certo senso comune solidaristico ha un suo peculiare effetto: misure particolarmente severe (o addirittura efferate) e provvedimenti suscettibili di creare reazioni indignate per la loro grossolanità e/o aggressività vengono presentati e argomentati, come adottati “per il loro bene”: ovvero per il bene dei destinatari-bersagli.
Si verifica qui, e nella maniera più eloquente, la validità di quella definizione che vuole l’ipocrisia come l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Esattamente così. Per argomentare non solo la presunta efficacia, ma anche la bontà di misure come la rilevazione delle impronte digitali ai bambini rom e sinti o, ancora, l’ordinanza “contro il rovistaggio” nei cassonetti, minacciata dall’amministrazione comunale di Roma, viene addotta una motivazione puntualmente ispirata al perseguimento del bene dei minori rom e sinti e dei ‘rovistatori’ dei cassonetti. Le impronte digitali verrebbero rilevate ai bambini perché solo la loro schedatura può consentire l’adozione di misure destinate all’integrazione dei minori stessi: sarebbe dunque necessaria, la rilevazione delle impronte, per consentire, per esempio, l’avvio di quei bambini all’istruzione scolastica. Così come l’ordinanza ‘contro i rovistatori’, secondo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, sarebbe motivata dalla necessità di difendere dalle infezioni gli stessi ‘rovistatori’. Ma una tale impostazione dialettica sembra essere davvero quella prevalente a proposito di tutte le misure relative all’ordine pubblico e, segnatamente, a quelle indirizzate nei confronti di presunte minacce sociali correlate a particolari situazioni di marginalità e di degrado. Così l’espulsione degli immigrati irregolari viene eseguita “per il loro bene”, così come per il loro bene si vuole qualificare come reati l’ingresso e la permanenza irregolare nel nostro territorio nazionale; con analoga motivazione era stato progettato, nel corso della quattordicesima legislatura, l’abbassamento dell’età della imputabilità per i minori; e infine, nell’ottobre del 2008, la Camera dei deputati ha approvato una mozione con la quale si chiede l’istituzione nella scuola dell’obbligo di “classi di inserimento” riservate ai bambini stranieri: tutto ciò, ovviamente, al solo scopo di “prevenire il razzismo” e “realizzare una vera integrazione” (Roberto Cota, presidente del Gruppo della Lega Nord alla Camera).
Analoga motivazione quella invocata a sostegno della proposta (contenuta nel disegno di legge sulla sicurezza, all’esame del Senato) di espellere i minori stranieri comunitari che esercitino la prostituzione: lo si farebbe, anche in questo caso, nel loro interesse, restituendoli alle famiglie di origine (che poi, molto spesso, sono responsabili di averli ‘venduti’ a organizzazioni criminali).
Insomma, è come se la severità – lungo una modulazione che arriva fino alla cattiveria – si vergognasse di sé stessa e, invece di dichiararsi come tale, si fingesse il suo opposto. Molti fattori concorrono a determinare un simile atteggiamento. C’è innanzitutto quella tentazione ipocrita di cui si è detto, tanto più sviluppata quanto più il senso comune della società e il suo livello di civiltà giuridica sembrano esigere motivi e fini virtuosi nelle politiche pubbliche. Ma, intrecciato a questo, c’è un fattore specularmente opposto, che corrisponde a una sorta di nuova tendenza negli orientamenti collettivi: ovvero un crescente compiacimento nell’esercizio di un ‘cattivismo’ che sembra ispirarsi al pragmatismo e, dunque, a una sorta di ribaltamento di stereotipi e di luoghi comuni che si ritiene abbiano dominato la mentalità condivisa. Mi spiego: non è un caso che il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, nel respingere le critiche all’utilizzo dei militari in servizio d’ordine pubblico, abbia attribuito quelle critiche “ai post-sessantottini, oltre che ai rapinatori, ladri, stupratori…”. A parte la trivialità, la dichiarazione di La Russa corrisponde a un pregiudizio assai diffuso in una parte cospicua dei gruppi dirigenti della società nazionale. L’idea, cioè, che nel paese abbiano dominato e continuino a dominare i valori o, comunque gli orientamenti propri delle culture di contestazione della fine degli anni Sessanta, e che quelle opzioni continuino a ispirare larga parte della sinistra. La cosa è doppiamente falsa: in primo luogo perché in quella stessa sinistra le opzioni in questione, se mai sono state dominanti, da tempo appartengono a esilissime minoranze; in secondo luogo perché, al di là di ciò che il sistema dei media o alcune élite o minoranze culturali potessero esprimere, all’interno della società italiana ben altri sono stati gli orientamenti prevalenti negli ultimi decenni. Ma quel consolidato stereotipo che vorrebbe il Sessantotto egemonizzare la mentalità condivisa del paese induce quanti a quella cultura vorrebbero opporsi, e quanti da quella cultura si sentono particolarmente lontani, a enfatizzare tutto ciò che costituisce il suo contrario. Il suo rovesciamento speculare. Dopo alcuni decenni di presunto trionfo del ‘buonismo’ (parola che stento a utilizzare e che per la prima volta arrivo a mettere per iscritto tanto essa mi risulta concettualmente e letterariamente ripugnante), è il momento magico del cattivismo. Il suo tracotante revanscismo.
Perché insistere tanto su questo punto? Perché ritengo che la combinazione tra fiera rivendicazione del cattivismo e motivazione filantropica dello stesso costituisce una miscela ideologica e culturale che, se non adeguatamente contrastata, può arrivare a ‘corrompere’ una parte del senso comune della nostra società. Si pensi all’episodio che ha sollecitato la frase prima ricordata del ministro La Russa: ovvero la partecipazione di tremila militari ad attività di ordine pubblico.
La decisione palesemente priva di qualunque effetto concreto, incondizionatamente contestata da tutti i sindacati delle forze di polizia e dai Cocer, inefficace sotto tutti i punti di vista, è stata uno dei più vacui atti di governo, ma perfino essa può essere presentata come affermazione di una cultura politica che ribalta quella precedente, ispirata – secondo le più grossolane letture – al “pacifismo catto-comunista” (ancora il ministro della Difesa). Dunque, quella che è una misura totalmente immotivata rispetto al fine indicato, rischia di acquisire un suo senso sul piano – decisivo, sia chiaro – della comunicazione ideologica ovvero solo ed esclusivamente perché suonerebbe come sconfessione di ciò che ha (si ritiene che abbia) dominato finora negli orientamenti e nelle politiche in materia di ordine pubblico. Il rischio è che questa logica, così diffusa in certi strati dell’opinione pubblica, condizioni anche il Pd. La posizione dei gruppi parlamentari sui provvedimenti in materia di sicurezza, per esempio, non riesce sempre a emanciparsi dalle tentazioni del punitivismo e del securitarismo. È certamente vero, infatti, che netta è stata la contrarietà del Pd rispetto a misure discriminatorie come la cosiddetta aggravante di clandestinità (che implica un aumento di pena per qualsiasi reato, per il solo fatto di essere stato commesso da un immigrato irregolare), la qualificazione come reato dell’ingresso e del soggiorno irregolari nel territorio dello Stato, il divieto di matrimonio per gli stranieri irregolari, l’obbligo per i medici di segnalare i migranti non regolari, l’espulsione dei minori comunitari che esercitino la prostituzione, l’estensione fino a diciotto mesi della durata della detenzione amministrative nei Cie (gli ex Cpt), la legalizzazione delle ronde o la schedatura dei clochard, la cui illegittimità è stata denunciata con apposite pregiudiziali. E, tuttavia, è altrettanto vero che analoga contrarietà non si è manifestata verso norme discriminatorie e limitative dei diritti individuali, quali quelle che impediscono l’ingresso in Italia ai migranti condannati con sentenza anche non definitiva per contraffazione, che inaspriscono ulteriormente le pene per l’inottemperanza all’ordine di espulsione o per la sottrazione da parte del migrante all’identificazione, o che, su un altro piano, estendono i casi di obbligatorietà della custodia cautelare in carcere o inaspriscono ulteriormente il regime del “carcere duro” (art. 41-bis l. 354/1975).  Ora, è chiaro che si tratta di temi delicati e tra loro diversi, accomunati tuttavia dalla prevalenza delle ragioni di difesa sociale rispetto a nemici designati, sulle esigenze di tutela dei diritti e delle libertà individuali del migrante o del cittadino che, anche se imputato o condannato, non può essere privato di diritti fondamentali, quali quelli alla tutela giurisdizionale, al corretto processo, alla difesa in giudizio, alla presunzione di innocenza. Come pure pesano il silenzio o le rare e timide posizioni di esponenti del Pd sulla proposta del ministro dell’Interno di una moratoria sulla costruzione di nuove moschee o centri di cultura islamica.
Alla definizione del quadro, e del clima, sin qui tratteggiato, contribuisce quella impostazione che definisco ‘torvo-filantropica’. È un’impostazione destinata a motivare-legittimare misure particolarmente aggressive e/o invasive, che tendono a diffondersi rapidamente dall’ambito delle politiche per l’ordine pubblico, finalizzate a reprimere minacce sociali, all’ambito del controllo sui comportamenti individuali e collettivi. Ovvero sulle forme di aggregazione e persino sugli stili di vita e sulle modalità di occupazione del tempo libero, comprese le più innocue (o quelle considerate finora le più innocue). Si pensi all’ordinanza dell’amministrazione comunale di Bologna e di altre città a proposito del consumo di bevande all’esterno dei locali pubblici e quella di Bacoli a proposito dell’“uso di cannucce sulla pubblica via”; o, ancora, al regolamento approvato dalla giunta comunale di Lucca che vieta “l’attivazione di esercizi di somministrazione, la cui attività sia riconducibile a etnie diverse”. Ma l’elenco è sterminato e tragicomico.
E sembra ripercorrere la strada tracciata negli anni Novanta, a New York, dalle politiche di ordine pubblico (la cosiddetta quality-of-life-campaign) di Rudolph Giuliani, basate sulla teoria delle Broken Windows. Secondo quest’ultima, laddove le finestre rotte e le cabine divelte non vengono riparate, così dimostrando una carenza di controllo e intervento pubblico, è più facile che prosperi il crimine, anche nelle sue forme più gravi. Di qui la convinzione – sostenuta anche in Italia, in particolare in relazione alle ordinanze sui lavavetri, sulla prostituzione, sulla mendicità – della necessità di intensificare le forme di controllo sociale, disciplinando e punendo finanche i comportamenti, privi di offensività verso terzi, espressione di disagio o di marginalità sociale.
In base a quelle ordinanze comunali, in una contorta e segmentata geografia delle interdizioni, a seconda della località, è vietato: lasciare gli asciugamani in spiaggia per prenotare il posto, camminare con calzature in legno, andare in giro senza maglietta (per gli uomini) o in bikini (per le donne), appoggiare i piedi sulle panchine, scavare buche in spiaggia o costruirvi castelli che possano ostruire il passaggio, tuffarsi in mare nelle aree in cui non sia espressamente consentito, circolare con i risciò sul lungomare nei fine settimana di luglio e per tutto il mese di agosto, sedersi sulle scalette delle piazze, fare i fuochi d’artificio per feste private (tranne il sabato), raccogliere fragole, lamponi e mirtilli…  Oltretutto, queste e mille altre ordinanze variano da località a località, cosicché “lo stesso comportamento è legittimo in un comune (perché il sindaco non ha emanato nessuna ordinanza), è illegittimo in altro comune, mentre in un terzo comune, dove le ordinanze prevedono ipotesi e sanzioni diverse, questo comportamento è illegittimo per alcuni aspetti e non per altri”.
Esiste una qualche relazione tra questa volontà di ‘disciplinamento’ della vita sociale (e della stessa autonomia e fin gestualità individuali) e l’allarme sociale prodotto dall’approvazione del provvedimento di indulto? Credo proprio di sì. Nell’ostilità contro l’indulto così come nell’ampia approvazione per le misure previste dalle amministrazioni comunali, oltre a una generica domanda di ordine pubblico e a una richiesta crescente di ‘decoro sociale’, emerge un bisogno di, come dire, punizione. Insomma, si può dire che su questo piano ‘la destra ha vinto’ ideologicamente a mani basse. Ciò non significa in alcun modo che il concetto di pena, l’idea di sanzione, il dovere di pagare i propri debiti appartengano solo ed esclusivamente al campo della destra (penso di aver già chiarito questo punto e vi ritornerò), ma che appartengano pienamente al campo della destra la motivazione e la finalità con le quali quelle categorie vengono oggi diffusamente manovrate. Motivazione e finalità sono tutte connotate da un intento esemplare: quello di dare una lezione. Ma è una lezione il cui scopo non è l’educazione e la riabilitazione bensì la sanzione stessa. Come il fine del carcere, in questa utopia negativa, è la carcerazione, in quelle ordinanze lo scopo è la disciplina (applicata indifferentemente a comportamenti nocivi o innocui, che determinano danni o si limitano a produrre disordine).
Qui, tuttavia, si impone un’avvertenza. Il discorso sull’anima democratica, a partire dalla questione dell’indulto, è palesemente il più arduo e scivoloso. Non c’è dubbio infatti che: a) il provvedimento di clemenza abbia pesato in maniera particolarmente significativa, e addirittura rovinosa per certi versi, sul patrimonio di consensi e simpatie di cui godeva il governo Prodi, e sulla sua dispersione; b) quel provvedimento, nella migliore delle ipotesi, era destinato comunque a ottenere adesioni decisamente minoritarie nella società, in ragione dei suoi effetti certamente controversi e in apparenza (ma solo in apparenza) negativi. I dati reali dicono, infatti, tutt’altro: al 15 ottobre del 2008 (oltre due anni dopo l’approvazione dell’indulto), il tasso di recidiva riscontrato tra quanti hanno beneficiato di quel provvedimento dallo stato di detenzione è del 26,97 per cento; in un campione significativo di quanti sono stati liberati mentre si trovavano in misure alternative la recidiva è del 18,57 per cento. Percentuali elevate, ma assai ridotte rispetto a quelle registrate tra quanti scontano interamente la pena, senza usufruire di provvedimenti di clemenza o di benefici (intorno al 68 per cento).  Vale la pena osservare che i dati qui citati vengono costantemente ignorati o gravemente deformati. In ogni caso, la partita si presentava da subito assai difficile. Ciò che qui preme rilevare, ancora una volta, è che tale partita così poco agevole è stata resa addirittura impossibile, anche per responsabilità diretta dei leader del centro sinistra e del suo quadro militante, con rarissime eccezioni. Intendo dire: è possibile che il provvedimento di clemenza si sarebbe risolto, in ogni caso, in un saldo negativo per il centro sinistra (nonostante che sia stato approvato da gran parte della maggioranza e dell’opposizione), ma non averci nemmeno provato – non aver nemmeno provato a gestire quel provvedimento in termini razionali, secondo una concezione garantista e progressista della politica penale – è stato peggio che nascondere la testa sotto la sabbia. Si è rinunciato, pertanto, ad assumere posizioni che, pur se probabilmente destinate al minoritarismo, avrebbero potuto costituire materia di dibattito e occasione di riflessione sulle politiche della giustizia. In gioco c’era, infatti, il confronto tra due diritti entrambi essenziali e degni di tutela: quello alla sicurezza, all’incolumità e alla difesa dei beni del cittadino e quello a una pena che non impedisca né ostacoli la riabilitazione del condannato e la sua inclusione a pieno titolo nel sistema della cittadinanza. Combinare quelle due esigenze è, palesemente, tra le imprese più difficili al mondo: ma provarci e affrontare il conflitto, in apparenza irrisolvibile, tra quei due diritti equivale, appunto, a sottoporre a verifica i valori fondanti una qualsivoglia cultura di sinistra e, più in generale, progressista. Mi spiego: la tensione tra i due diritti, entrambi sacrosanti, è suscettibile – se dichiarata, affrontata a viso aperto e pubblicamente discussa – di produrre partecipazione e presa di posizione, assunzione di responsabilità e argomentazione dialettica. E capace di verificare la consistenza e la persistenza di valori, l’adesione a essi o la loro critica, la loro conferma o il loro superamento. Ottiene l’effetto, pertanto, di spostare l’attenzione e i processi di autodefinizione sul piano dei valori di riferimento. Il caso dell’indulto è, sotto questo profilo, oltre che scivolosissimo, straordinariamente significativo: si può e si deve “correre il rischio del bene”?  Offrire un’opportunità al reo, mettendo nel conto anche il possibile insuccesso è o non è altrettanto importante quanto tutelare l’innocente dalla possibile recidiva dell’autore di reato? In termini appena diversi non offrire opportunità, alternative, chance di riabilitazione al reo contribuisce alla sicurezza collettiva, oppure, all’opposto, riconfermando il reo nella sua condizione senza consentirgli di emanciparsene (con i rischi che ciò comporta), riprodurrà all’infinito la riserva di criminalità che cova nella vita sociale? E ancora: è possibile ‘misurare’ in termini di utilità sociale e di ‘economia dell’integrazione’ gli effetti sul sistema determinati da una strategia politica che, in materia di criminalità, consideri insieme vittime e colpevoli, cittadini che vivono nella legalità e condannati che hanno espiato la pena, domande di difesa sociale ed esigenze di mediazione dei conflitti? Oppure qualsiasi strategia per la sicurezza pubblica esige, per definizione, che la tutela della sicurezza stessa e del suo principale destinatario – il cittadino rispettoso delle leggi – sia la priorità incontestabile? La priorità cui subordinare tutti gli altri obiettivi e interessi (e i soggetti che ne sono titolari), fino a porli in una condizione gerarchicamente inferiore, che ne prevede il sacrificio quando ciò si rivelasse necessario o anche solo opportuno? In conclusione, è possibile comparare, in termini di costi e benefici, strategie diverse e collegarle a diversi sistemi di valori, superando scempiaggini sesquipedali come “la legalità non è di destra né di sinistra”? Certo, “la legalità non è di destra né di sinistra” come non lo è il cacciavite, ma le strategie per l’ordine pubblico tendono a corrispondere a riconoscibili opzioni politiche. Non aver voluto affrontare le prime (le strategie) con riferimento puntuale alle seconde (le opzioni politiche) ha alimentato mistificazioni assai pericolose. Una tra queste richiama una sorta di ‘neutralizzazione’ delle politiche pubbliche su temi particolarmente delicati e ad alta intensità emotiva e simbolica, interdicendo dal prendere partito non solo sulle singole misure ma anche sulle implicazioni politiche, e talvolta morali, che possono comportare. La seconda è conseguenza diretta della prima: se quelle strategie per la sicurezza pubblica rispondono esclusivamente a considerazioni di ordine tecnico-amministrativo, dunque da accogliere perché oggettive ed esclusivamente dipendenti dal fine perseguito, sfuma la distinzione tra un campo politico e l’altro e, in luogo dei valori, risulta dirimente solo l’efficacia del provvedimento assunto. Si tratta, per giunta, di una efficacia più presunta che reale, più agitata che provata: basti pensare al dato relativo agli sbarchi di immigrati irregolari in Italia. Quegli sbarchi, con il governo Berlusconi, sono aumentati al punto che al 31 dicembre 2008 si è raggiunta la cifra di 36.900 persone arrivate via mare  (alla stessa data del 2007 erano 19.500); e, in soli cinque giorni, intorno al Natale del 2008, sbarcano ben 2.400 immigrati.
In ogni caso su questo piano la destra è destinata a prevalere, per un’antica consuetudine con quei temi e con i provvedimenti che richiamano, per una notevole corrività verso il sostanzialismo giuridico (che trascura le garanzie e le tutele individuali), per una sedimentata vocazione al pragmatismo senza principi. Alcune delibere dell’amministrazione comunale di Roma offrono una inequivocabile conferma di quanto fin qui detto. La decisione di dotare di pistola tutti gli appartenenti alla polizia municipale rischia di assorbire una polemica politica sostanzialmente superficiale, se non ideologica, e di far sottovalutare un provvedimento, prima annunciato e poi ritirato in tutta fretta, e di cui si è già detto, contro ciò che viene chiamato (con uno sgorbio linguistico che grida vendetta davanti a Dio e agli uomini e a quanti ritengono che “chi parla male pensa male”) ‘rovistaggio’ nei cassonetti dei rifiuti. È possibile che dotare di pistola la polizia municipale sia una decisione non valutabile con i criteri di destra e di sinistra, ma altrettanto non si può certo dire per una ordinanza “contro il rovistaggio” e per quelle, già approvate in altre città, a proposito di accattonaggio e mendicità. Il motivo è elementare e dovrebbe essere autoevidente: provvedimenti contro la mendicità (escludendo per un attimo la questione dei minori costretti a quella pratica) evocano in misura intensamente simbolica la questione ineludile della intangibilità di chi dispone esclusivamente della propria ‘nuda vita’. Una società che mortifica, o anche solo cancella chi è privo di tutto e di tutti ha subito la spoliazione, sembra volere annullare una parte tenacemente costitutiva di sé: quella più tragicamente inerme, perché ridotta a un’esistenza randagia e periferica, promiscua e sottoumana, eppure irriducibilmente umana. Negare tale intangibilità equivale a rigettare quella componente propria di ogni società, ma anche di ogni individuo che la abiti, fatta – simbolicamente e materialmente – di scarti, residui, rifiuti (malsani, infetti, consunti e sradicati) di ciò che è o è stato salute, benessere, prosperità della vita sociale e dell’esistenza singola, ordinate e regolate.
Ancora una volta: non si deve chiedere solidarietà a quei ‘rifiuti della società’; se ne chiede l’immunità. Si deve prevedere quanto è possibile fare – ben poco credo – per ridurre quell’area di marginalità estrema e offrire opportunità, anche minime (mense, alloggi notturni, assistenza sanitaria…), a chi la frequenti, ma il punto è innanzitutto, come si è detto, simbolico. Chi vuole semplicemente cancellare (ovvero spostare al di là dello sguardo pubblico) lo ‘spettacolo osceno’ della miseria più nera coltiva una visione totalitario-omologante dell’organizzazione sociale, dal momento che il suo fine non è “eliminare la povertà” ma occultarla. Chi coltiva una concezione garantista della società sa che per ridurla almeno, quella povertà, è necessario continuare a vederla: e a considerare quei poveri, appunto, parte di un destino comune e, ancor più di un sistema economico sociale di cui si è membri. Attenzione: al di là delle apparenze non c’è nulla di religioso in questo ragionamento, se non per ciò che la religio richiama del legame sociale. Quella partecipazione a un destino condiviso è, allo stesso tempo, causa ed effetto dei meccanismi che determinano le dinamiche economiche di una società complessa, dove i processi di distribuzione diseguale delle risorse materiali e immateriali producono percorsi di inclusione ed esclusione, di ascesa e di rovina sociale, di rafforzamento dei ceti protetti e di marginalizzazione degli strati non garantiti: e anche di accumulo abnorme di privilegi
accanto a effetti di pauperizzazione estrema; e dove, soprattutto, ciascuno di questi processi risulta in qualche misura funzionale all’altro.
Per buttarla in politica, e per andare al sodo e al cuore di questo libretto, sapere tutto ciò – perlomeno averne consapevolezza – deve essere parte costitutiva dell’identità del Partito democratico.

Tratto da Un'Anima per il Pd - Luigi Manconi- Nutrimenti 2009

Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza
SHULIM VOGELMANN

Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza
CARO direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po' tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un ragazzo senza braccia.

Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare i battiti del cuore. Avrà massimo trent'anni.

Si parte. Poco prima della stazione di (...) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: "No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap". Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso, cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l'umiliazione ripete "Handicap, handicap".

I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.

La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i biglietti al resto del treno. Invece no.
Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso di affrontare la cosa con un po' più di compassione.

Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c'entro niente. Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la mia "deposizione", il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self service. "Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?" chiedo al capotreno che con la sua logica burocratica mi risponde: "C'è l'assistenza". "Certo, sempre pieno di assistenti delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service" ribatto io, e aggiungo che le regole sono valide solo quando fa comodo perché durante l'andata l'Eurostar con prenotazione obbligatoria era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a controllare il biglietti. "E lo sa perché?" ho concluso. "Perché quelle persone le braccia ce l'avevano...".

Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l'evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato, sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi; spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap.

La risposta del capotreno è pronta: "Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del razzismo!". E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (...). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli di mezza età. Nessuna aggressività nell'espressione del viso o nell'incedere. Devono essere abituati a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: "Ah, questi, con questi non ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi toccare". Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante.

Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora sollevato, con l'impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in avanti e bacia la mano del capotreno.

Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per quale motivo. "Perché mi hai offesa". "Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo lavoro?" le domando sempre più incredulo. Risposta: "Mi hai detto che sono maleducata". Mi alzo e prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice che se voglio posso annotarmi il numero del treno.

Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi semplicemente: Polizia ferroviaria di (...). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.
L'autore è scrittore ed editore

La Repubblica 30 dicembre 2009
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