David Allegranti
Corriere Fiorentino 28.12.2011
Dice Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici, presidente di A buon diritto, ex sottosegretario alla giustizia, che «la percentuale del sovraffollamento a Sollicciano è tra le più alte di tutto il sistema penitenziario italiano.

Il sovraffollamento non è una categoria astratta, non deve evocare una spiaggia della riviera romagnola il 15 agosto, perché lì la condizione di addensamento dei corpi, oltre a essere il risultato di una scelta volontaria, è una condizione a tempo determinato che si conclude con la fine della giornata. Il sovraffollamento all'interno di una istituzione chiusa è in primo luogo un fattore di disumanizzazione, che determina la caduta rovinosa di tutti gli standard di qualità dei servizi e, più in generale, della vita collettiva. È oltre dunque uno stato di promiscuità, che significa accavallarsi, sovrapporsi, combinarsi e incrociarsi dei corpi; significa che l'assistenza sanitaria precipita, la qualità dell'alimentazione decade, l'attività di trattamento e socializzazione tende a diventare sempre più miserevole. E in una istituzione chiusa, questa condizione riguarda direttamente tutti i soggetti che vi si trovano».
E così pure i poliziotti diventano dei reclusi.
«È una condizione che riguarda il detenuto, l'educatore, lo psicologo e in particolare il poliziotto penitenziario. Quella stessa promiscuità costituisce un fattore intollerabile perché toglie l'aria, la possibilità di movimento e la libertà di azione, e diventa dunque un elemento coercitivo tanto per il custode quanto per i custoditi. Quel sovraffollamento si traduce in un fattore di stress, in senso proprio; significa esaurimento nervoso, indebolimento della propria capacità di autocontrollo, riduzione della lucidità, fatica psicologica, annebbiamento. In sostanza: crisi».
Con il rischio che l'unica liberazione diventi quindi il suicidio.
«Ogni suicidio, come noto, ha una dinamica personale spesso imperscrutabile, ma il fatto che sia cresciuto il numero di suicidi fra i poliziotti è un dato inequivocabile e straziante. I poliziotti penitenziari tendono a suicidarsi oggi con una frequenza come mai era accaduto in passato; il carcere diventa un fattore epidemiologico, produce patologia sia per detenuti che per l'agente come mai in passato. La condizione dei detenuti è nota all'interno del carcere, la frequenza dei suicidi è dalle 18 alle 20 volte superiore alla frequenza dei suicidi dell'intera popolazione nazionale. E mentre nell'intera società la frequenza è maggiore nelle fasce di età avanzate, nel carcere è maggiore nelle fasce di età giovani. E ancora maggiore è la frequenza dei suicidi nelle prime settimane e nei primi mesi di detenzione».
C'è un altro aspetto impressionante: la presenza dei bambini insieme alle mamme nel carcere.
«Questo è lo scandalo più crudele nello scandalo generale. La questione dei bambini reclusi è di facilissima soluzione. Basterebbe un investimento di qualche milione di euro. All'interno delle carceri italiane attualmente ci stanno tra i 50 e i 60 bambini. In tutta Italia c'è un solo istituto pensato per i bambini figli di madri detenute; esiste a Milano da 5 anni e funziona benissimo, è una struttura dove le madri vivono con i figli in un ambiente che non evoca il carcere. Quindi con agenti donne, senza divisa, senza sbarre alle finestre, con una dimensione domestica accogliente; è un esperimento che funziona e se venisse ripetuto altre 3-4 volte risolverebbe il problema. Anni fa a Rebibbia i bambini vivevano in celle dove i letti in ferro richiedevano che negli spigoli fossero messi degli indumenti per evitare che si ferissero».
Ma questi bambini non dovrebbero stare in altre strutture?
«Non dovrebbero andare in carcere. Ci stanno le madri di quei bambini che o sono senza fissa dimora o che il magistrato ha deciso di non lasciare ai domiciliari, cosa che ritengo un grave errore. Ad ogni modo, se proprio non si potesse fare diversamente, andrebbero messe in strutture totalmente diverse da quelle attuali. È un problema che potrebbe essere risolto se, per esempio, la fondazione di una banca decidesse di fare un investimento di qualche milione».
Non le sembra un po' ipocrita l'atteggiamento della classe politica che si ricorda della popolazione carceraria solo per Natale?
«Interessarsi di carcere non porta voti, ma porta al contrario impopolarità. La materia carcere è intrattabile e non produce consenso, anzi in generale determina riduzione del consenso. Dietro c'è una questione elementare di psicologia sociale, non così misteriosa. Il carcere è il luogo dove viene recluso il male ed è percepito come male nell'inconscio dell'individuo; cioè avvertiamo inconsciamente che il male è parte di noi. Ma proprio perché il male rappresenta una tentazione, una insidia, una minaccia, che tuttavia ci seduce e ci attrae, noi intendiamo rimuoverlo. E per rimuovere un incubo, la reazione più elementare e istintiva è quella di spostarlo fuori dal nostro sguardo. Non a caso la tendenza prevalente è trasferire il carcere fuori dalla città. Così tiriamo un sospiro di sollievo; non abbiamo ceduto al male ma non vogliamo misurarci con quella tentazione che mette a prova la nostra debolezza. Tant'è vero che i nemici più ottusi della popolazione reclusa sono i moralisti, i quali ritengono invece che il male sia al di fuori di loro e che il vizio non li riguardi».
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Commenti (1)
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