Politicamente correttissimo
Il giusto Scalfaro
Giuseppe Uva, nessuno dice più che un cittadino non deve entrare vivo e uscire morto dalla caserma
Luigi Manconi
Oscar Luigi Scalfaro, da queste parti (intendo le pagine del Foglio), non ha mai suscitato grandi entusiasmi. Anzi. Io devo confessare, invece che –pur non apprezzando quasi nulla della sua impostazione politica e culturale- avevo notevole simpatia per lui. Soprattutto da quando mi era capitato di svolgere un ruolo, come dire, di intermediario, tra lui e Fabio Fazio in occasione della partecipazione dell’ex capo dello Stato a una puntata di Che tempo che fa. Ricordo ancora la fanciullesca curiosità e il sommesso divertimento con cui Scalfaro si preparava  a  quell’appuntamento per lui così singolare. Ma c’è, nella vita politica di Scalfaro, un episodio assai significativo, raramente ricordato e che mi torna in mente in questi giorni. Siamo nel luglio del 1985 e da pochi giorni è stato ucciso, in un agguato di mafia nei pressi di Palermo, il commissario di polizia Beppe Montana. Nel corso delle indagini,viene arrestato Salvatore Marino, sospettato di complicità in quell’omicidio. Nella sua abitazione, durante una perquisizione, vengono trovati diversi milioni di lire. Marino viene arrestato e portato in carcere. Da lì, presumibilmente nottetempo,viene prelevato e riportato in questura. Seguono ore e ore di interrogatorio, condotto con metodi e strumenti illegali. A seguito di questo trattamento Marino muore. L’esame medico riscontrerà  insufficienza cardio-circolatoria secondaria a danno polmonare acuto diffuso; sul cadavere trauma ai reni, congestione viscerale, contusioni ai piedi, alle mani, ai polsi. Sul braccio sinistro, i segni di un morso. Nonostante alcuni tentativi di depistaggio, le responsabilità delle forze dell’ordine risultano evidenti. La sera del 5 agosto 1985, arrivano le parole  dell’allora ministro dell’Interno, Scalfaro: «Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto». Dopo di che tutto precipita e, il responsabile degli uomini accusati di aver provocato la morte di Marino, il commissario Ninni Cassarà, viene ucciso, insieme all’agente Nino Antiochia, da un commando mafioso.  È una vicenda tragica come poche altre. Ma le parole di Scalfaro –in quel quadro così teso e confuso-  restano, comunque, nitide e preziose.  E rare, rarissime, se è vero che, né prima né dopo, alcuno ne ha pronunciato di uguali. Eppure, anche oggi, servirebbero, eccome. Per esempio, a proposito della vicenda di Giuseppe Uva, 43 anni, entrato vivo nella caserma dei carabinieri di Varese la notte del 14 giugno del 2008; uscitone con una ambulanza della guardia medica, poi trasferito nel pronto soccorso dell’ospedale di Circolo e,infine, nel reparto psichiatrico di quella stessa struttura. Dove muore. A distanza di quasi quattro anni da quel tragico decesso, una perizia (fatta con incredibile ritardo) mostra  che sui pantaloni di Uva “oltre a sangue sono presenti cellule pavimentose con nucleo che possono essere derivate dalla regione anale o dalle basse vie urinarie”. Ma ulteriori considerazioni medico-scientifiche indirizzano verso la prima ipotesi, la “regione anale”. E in che modo può essere spiegata la presenza di sangue, proveniente da quella regione, sui pantaloni di Uva? Le ipotesi, di fronte all'evidenza dei risultati, non sono molte. Quella suggerita da alcuni, ovvero che il sangue possa derivare dal collasso di emorroidi, non risulta confermata, dal momento che finora tale patologia mai era stata rilevata. Resta l'interrogativo più inquietante: Giuseppe Uva ha subito violenza sessuale? Potrebbero esserci anche altre risposte, che pure al momento non si riesce nemmeno a immaginare. Fatto sta che, da quel 14 giugno del 2008, non un ministro dell’Interno o della Difesa (dal quale, com’è noto, dipende l’arma dei carabinieri), ha ancora pronunciato quella frase: è inammissibile che, in uno Stato di diritto, un cittadino entri  vivo in una stanza ( della polizia, dei carabinieri o di un altro corpo) e ne esca morto. Diavolo d’uno Scalfaro.
il Foglio 13.3.2012
Politicamente correttissimo
Il giusto Scalfaro
Giuseppe Uva, nessuno dice più che un cittadino non deve entrare vivo e uscire morto dalla caserma
Luigi Manconi
Oscar Luigi Scalfaro, da queste parti (intendo le pagine del Foglio), non ha mai suscitato grandi entusiasmi. Anzi. Io devo confessare, invece che –pur non apprezzando quasi nulla della sua impostazione politica e culturale- avevo notevole simpatia per lui. Soprattutto da quando mi era capitato di svolgere un ruolo, come dire, di intermediario, tra lui e Fabio Fazio in occasione della partecipazione dell’ex capo dello Stato a una puntata di Che tempo che fa.
Ricordo ancora la fanciullesca curiosità e il sommesso divertimento con cui Scalfaro si preparava  a  quell’appuntamento per lui così singolare. Ma c’è, nella vita politica di Scalfaro, un episodio assai significativo, raramente ricordato e che mi torna in mente in questi giorni. Siamo nel luglio del 1985 e da pochi giorni è stato ucciso, in un agguato di mafia nei pressi di Palermo, il commissario di polizia Beppe Montana. Nel corso delle indagini,viene arrestato Salvatore Marino, sospettato di complicità in quell’omicidio. Nella sua abitazione, durante una perquisizione, vengono trovati diversi milioni di lire. Marino viene arrestato e portato in carcere. Da lì, presumibilmente nottetempo,viene prelevato e riportato in questura. Seguono ore e ore di interrogatorio, condotto con metodi e strumenti illegali. A seguito di questo trattamento Marino muore. L’esame medico riscontrerà  insufficienza cardio-circolatoria secondaria a danno polmonare acuto diffuso; sul cadavere trauma ai reni, congestione viscerale, contusioni ai piedi, alle mani, ai polsi. Sul braccio sinistro, i segni di un morso. Nonostante alcuni tentativi di depistaggio, le responsabilità delle forze dell’ordine risultano evidenti. La sera del 5 agosto 1985, arrivano le parole  dell’allora ministro dell’Interno, Scalfaro: «Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto». Dopo di che tutto precipita e, il responsabile degli uomini accusati di aver provocato la morte di Marino, il commissario Ninni Cassarà, viene ucciso, insieme all’agente Nino Antiochia, da un commando mafioso.  È una vicenda tragica come poche altre. Ma le parole di Scalfaro –in quel quadro così teso e confuso-  restano, comunque, nitide e preziose.  E rare, rarissime, se è vero che, né prima né dopo, alcuno ne ha pronunciato di uguali. Eppure, anche oggi, servirebbero, eccome. Per esempio, a proposito della vicenda di Giuseppe Uva, 43 anni, entrato vivo nella caserma dei carabinieri di Varese la notte del 14 giugno del 2008; uscitone con una ambulanza della guardia medica, poi trasferito nel pronto soccorso dell’ospedale di Circolo e,infine, nel reparto psichiatrico di quella stessa struttura. Dove muore. A distanza di quasi quattro anni da quel tragico decesso, una perizia (fatta con incredibile ritardo) mostra  che sui pantaloni di Uva “oltre a sangue sono presenti cellule pavimentose con nucleo che possono essere derivate dalla regione anale o dalle basse vie urinarie”. Ma ulteriori considerazioni medico-scientifiche indirizzano verso la prima ipotesi, la “regione anale”. E in che modo può essere spiegata la presenza di sangue, proveniente da quella regione, sui pantaloni di Uva? Le ipotesi, di fronte all'evidenza dei risultati, non sono molte. Quella suggerita da alcuni, ovvero che il sangue possa derivare dal collasso di emorroidi, non risulta confermata, dal momento che finora tale patologia mai era stata rilevata. Resta l'interrogativo più inquietante: Giuseppe Uva ha subito violenza sessuale? Potrebbero esserci anche altre risposte, che pure al momento non si riesce nemmeno a immaginare. Fatto sta che, da quel 14 giugno del 2008, non un ministro dell’Interno o della Difesa (dal quale, com’è noto, dipende l’arma dei carabinieri), ha ancora pronunciato quella frase: è inammissibile che, in uno Stato di diritto, un cittadino entri  vivo in una stanza ( della polizia, dei carabinieri o di un altro corpo) e ne esca morto. Diavolo d’uno Scalfaro.
il Foglio 13.3.2012
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