«Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano».

* * *

Trentacinque anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Qui mi interessa evidenziare uno, e uno solo, dei passaggi importanti della sua straordinaria biografia culturale e politica, che corrisponde peraltro a un grave travisamento del suo pensiero. Col trascorrere dei decenni Pasolini e una sua poesia sono stati piegati, strapazzati e manipolati a tal punto da produrre uno stereotipo che sembra dominare incontrastato. Lo stereotipo - presto detto - è quello di “Pasolini contro gli studenti”. Di quella celeberrima poesia, Il Pci ai giovani (l’Espresso 16 giugno 1968, poi in Nuovi Argomenti), si è fatto un uso tanto disinvolto da proporla come bandiera di un presunto conflitto, profondo e insuperabile, tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista (che si riconosce nel movimento detto “del ‘68”), e il proletariato e il sottoproletariato identificati nel mestiere e nella vita dell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in qualche modo. Questa falsa rappresentazione non è stata mai messa in discussione ed è diventata dunque una sorta di verità storico-letteraria accettata dall’intero establishment in tutte le sue componenti culturali e politiche. Eppure di essa c’è da dubitare, eccome. Un bravissimo regista, Davide Ferrario, ha voluto indagare sulla questione e ne ha ricavato una interpretazione tutt’affatto differente. Secondo Ferrario, il senso di quella poesia sarebbe stato completamente ribaltato, da letture interessate, rispetto all’ispirazione originaria. Fu lo stesso Pasolini ad argomentarlo puntualmente. A proposito di quei versi così sprezzanti (riportati all’inizio di questo articolo) scrisse: «Nessuno (...) si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore... su ciò che veniva dopo... dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica», (il Tempo, 17 maggio 1969).
Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che la sua poesia determinò. E tuttavia, come è potuto accadere che l’interpretazione, offerta dalla fonte più autorevole, ovvero l’autore, venisse totalmente ignorata? Resta da fare una considerazione: quella interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso letterale), che ha prevalso in questi decenni conteneva un grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Pasolini mostrava come, negli eventi della fine degli anni ’60 emergesse – intrecciata alla frattura destra/sinistra – una frattura infragenerazionale «di classe». E non perché il movimento degli studenti fosse sociologicamente, o politicamente, borghese o piccolo-borghese (antagonista, dunque, dei «Proletari in Divisa»); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel rapporto tra il movimento studentesco e gli «altri»: i possibili, riottosi alleati (gli operai, gli «sfruttati» tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti). Il sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida. Il Sessantotto fu anche questo.

05 novembre 2010 l'UNità
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