Quella lezione di Manganelli

Luigi Manconi

Appena alcuni giorni fa, molti hanno pianto la morte del capo della polizia, Antonio Manganelli. A me è capitato di frequentarlo per una questione che, in queste ore, conosce uno strascico che colpisce intensamente l’opinione pubblica. Un anno e mezzo fa, a fine settembre del 2011, Manganelli chiese di incontrare i familiari di Federico Aldrovandi, il diciottenne di Ferrara morto a seguito delle violenze subite da quattro poliziotti, nel settembre del 2005. La madre e il padre di Federico mi chiesero di partecipare alla preparazione di quell’incontro e di discuterne con Manganelli modalità e contenuti. Fu un momento importante perché rappresentò il tentativo, da parte del capo della polizia, di sanare – di iniziare a sanare- la ferita che la morte di Aldrovandi (e molti episodi altrettanto tragici dovuti a comportamenti altrettanto efferati) hanno prodotto nel rapporto sempre tormentato tra cittadini e Stato. Non fu un atto estemporaneo, quello di Manganelli. Alla fine del 2007, capo della polizia da pochi mesi, volle intervenire telefonicamente nel corso di una trasmissione televisiva alla quale partecipavo, e pronunciò inequivocabili parole di condanna a proposito della morte di un tifoso della Lazio, Gabriele Sandri, ucciso dai proiettili sparati da un agente della Stradale. E successivamente, attraverso il questore di Ferrara, trasmise messaggi di attenzione e sensibilità nei confronti dei genitori di Federico e infine, nel luglio del 2012, dopo la sentenza della Cassazione, scrisse parole importanti e impegnative in una lettera privata alla famiglia. Appena dopo, a seguito della condanna definitiva per i fatti della Diaz (G8 di Genova, 2001) si scusò pubblicamente a nome della Polizia di Stato. Tutto ciò va ricordato proprio mentre una parte dell'opinione pubblica resta sconcertata per la manifestazione sediziosa e, insieme, triviale organizzata da un sindacato di Polizia davanti all'Ufficio comunale di Ferrara dove lavora la madre di Aldrovandi. E, infatti, le forze dell'ordine sono entrambe le cose: riflettono i due opposti atteggiamenti (quello di Manganelli e quello dei colleghi solidali con gli omicidi di Stato); e ci parlano di una realtà contraddittoria e lacerata,divisa tra deboli tentativi di riforma e tendenze alla conservazione, all'autodifesa corporativa, alla chiusura schiettamente reazionaria. La richiesta di dimissioni da parte del sindacato di polizia nei confronti del ministro Anna Maria Cancellieri, sarebbe un atto eversivo se non fosse invece grottesco: un segno di codardia e impotenza più che una vera intimidazione; e i protagonisti di questa azione ricordano piuttosto i personaggi di " Vogliamo i Colonnelli!" di Mario Monicelli (1973). Quel sindacato, in altre parole, non costituisce, certo, una minaccia per la tenuta dello stato democratico: e, tuttavia, segnala tentazioni e pulsioni ben presenti all'interno dei corpi di polizia. Non a caso, le parole e i gesti di Manganelli e di Anna Maria Cancellieri non sono stati adeguatamente accompagnati da altre parole e da altri gesti da parte dell'insieme dei responsabili, a tutti i livelli, delle forze dell'ordine. Troppo spesso, davanti ad episodi di violenza e di illegalità, i comandi locali e centrali di polizia e carabinieri ridimensionano, sminuiscono, sdrammatizzano. Insomma: "sopire, troncare (...) troncare, sopire". Questo è stato il comportamento delle gerarchie davanti a vicende come quella della morte di Giuseppe Uva, per lunghe ore trattenuto all'interno della caserma dei carabinieri di Varese; o a quella di Stefano Cucchi ( percosso da agenti di polizia penitenziaria) ; o a quelle di Michele Ferrulli e di Luciano Isidro Diaz e di molte altre vittime, per limitarci agli ultimi anni. E, ancora prima, davanti ai fatti del Global Forum di Napoli, nel marzo 2001, e del G8 di Genova, nel luglio dello stesso anno. Ciò che emerge è non solo la corresponsabilità morale e politica, quando non penalmente rilevante, dei vertici, ma la catastrofe culturale che alimenta. Ovvero l' impreparazione di molta parte degli agenti nel gestire l'ordine pubblico e l'indifferenza, e talvolta l'ostilità, nei confronti delle garanzie del cittadino, dei suoi diritti costituzionali e, in particolare, di quello alla piena integrità fisica. In altre parole, l'incapacità di formare uomini e donne in grado di svolgere quel lavoro delicatissimo che è il controllo della sicurezza pubblica non contro i cittadini, ma sempre al loro servizio.

l'Unità 29 marzo 2013

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