Spezzare la catena del male – Padova 21 maggio – Casa di reclusione


Intervento di Marco Bouchard

Benedetta Tobagi, figlia del giornalista assassinato il 28 maggio 1980, ha espresso così il senso di un lungo lavoro di scavo nella memoria che la lega al padre: “io non voglio parlare di perdono, però mi interessa tutto quello che può spezzare la catena del male…il male che c’è dentro a tutti noi e che circola nella vita quotidiana”.


Ma è possibile, mi domando, spezzare la catena del male senza attingere alle risorse del perdono?

Noi conosciamo molto bene il sentimento di colpa per le offese che commettiamo. Certo: a volte, forse troppo spesso, cerchiamo di nascondere questo sentimento perché la vergogna, la rimozione, i nostri limiti emotivi e culturali ci impediscono di vedere la colpa.
Ma bisognerebbe imparare a riconoscere anche un altro sentimento altrettanto profondo di colpa: quello che proviamo per le offese che abbiamo subito. Questa affermazione può sembrare contraddittoria: se siamo offesi perché mai dovremmo sentirci in colpa? In realtà i nostri meccanismi psichici non sono così banali. L’offesa produce nella vittima dei sentimenti maligni – pensiamo alla vendetta per l’ingiustizia subita ma anche alla semplice rabbia, al rancore e ad ogni sorta di recriminazioni verso gli altri e verso noi stessi – che trasformano il senso originario dell’ingiustizia patita.
Più trascuriamo questo rischio di confondere il senso dell’ingiustizia con le parti torbide di noi stessi, cui ci esponiamo in quanto vittime, più siamo destinati a liberare le nostre emozioni negative offendendo a nostra volta, cercando dei capri espiatori per il nostro dramma personale. A volte questo sentimento di colpa irrisolto è così forte da ritorcersi contro noi stessi. Forse non c’è gesto più imperdonabile del suicidio quando diventa un modo per uccidere l’altro in noi stessi, un modo di non amare noi stessi come “il prossimo”. E’ un gesto che è imperdonabile semplicemente perché le sue conseguenze non sono in alcun modo riparabili da parte di chi lo ha eseguito.
Marie Balmary, una psicanalista francese,  nel suo libro "Un sacrifice interdit; Freud et la Bible" definisce questo lavoro dei sentimenti maligni “colpa nevrotica”.
Olivier Abel, in una bellissima raccolta di saggi, "Le pardon, briser la dette et l'oubli",  parla di “trasformazione maligna della colpa”.

Succede nei piccoli torti quotidiani. Succede nei grandi tornanti della storia quando popoli perseguitati si trasformano in stati persecutori.

Nietzsche, nel saggio "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", parlando della forza plastica che ci permette di trasformare positivamente cose passate, di sanare ferite, di sostituire parti perdute dice che “ci sono uomini che posseggono così poco questa forza che, per un’unica esperienza, per un unico dolore, spesso soprattutto per un unico lieve torto, si dissanguano inguaribilmente”.

Cosa può spezzare questa trasformazione maligna nelle persone offese e nelle vittime collettive?

Io provo a cercare una possibile risposta nel “perdono”, una parola che non esclude la giustizia, l’accertamento della verità, la pena.
Ma so che una sentenza o una sanzione non costituiscono, di per sé, alcuna garanzia nella aspettativa di “spezzare la catena del male”. La punizione può ristabilire l'ordine ma non restituisce la vita.
Perché in questa prospettiva l’unico strumento a disposizione è il perdono? Perchè solo il perdono, a mio avviso, può impedire la riproduzione del male sia nella sua forma passiva, con il ripiegamento e la depressione, sia nella sua forma attiva generatrice della vendetta, sia essa legale o illegale.
Hanna Arendt in "Vita activa"ci dice che l’azione umana è costretta costantemente a fare i conti con due limiti molto potenti: da un lato l’impossibilità di ritornare indietro, di annullare ciò che ormai è stato fatto, l’irreversibilità dell’agire umano; dall’altro la caotica incertezza del nostro futuro, la sua indecifrabilità, la sua imprevedibilità. Secondo Hanna Arendt l’unico rimedio alla irreversibilità delle cose passate è la facoltà di perdonare; l’unico rimedio alla imprevedibilità è la facoltà di fare e mantenere delle promesse.

Ma cosa intendiamo per perdono? Jacques Derrida dice che l’unico vero perdono, se esiste, deve poter perdonare l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile. Perché perdonare il perdonabile, il veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre perdonare, non è perdonare. Personalmente mi sento molto più vicino a Edgar Morin che, rispondendo a Jacques Derrida su "le Monde des Débats" nel 1999 con un articolo "Pardonner, c'est résister à la cruauté du monde", propone invece un concetto di perdono fondato sulla "comprensione". Comprendere un essere umano significa evitare qualsiasi riduzione della sua persona all’atto che egli ha commesso, sia pure il più grave di cui un essere si possa macchiare. E' l'atto che deve essere condannato. La persona che lo ha commesso deve essere dichiarata responsabile ma la condanna è sempre riferita ad uno specifico comportamento condannabile, non alla persona nella sua interezza.
Certo: noi possiamo perdonare solo quello che possiamo comprendere. Non possiamo perdonare se non è stata fatta verità. Non possiamo perdonare se non sono stati individuati i colpevoli.

Se, dunque, il perdono è comprensione, allora possiamo dire che questa parola può costruire la memoria per liberarci dal passato, è una parola che narra quello che è successo, un recupero faticoso di frammenti dolorosi. Non una rimozione o una cancellazione. Il perdono, in questi termini, formula sempre il torto subito. E per farlo c’è bisogno di tempo, a volte di tantissimo tempo. E sopratutto c'è bisogno che il perdono venga chiesto da chi si assume essere colpevole.

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Ma come è possibile collegare questo pensiero con il sistema della giustizia e con i suoi modi di trattare le infinite offese quotidiane. Noi siamo in un carcere ed è rischioso parlare di perdono perché chi vive qui dentro non è stato perdonato anche quando, forse, il perdono l’ha chiesto. E se è stato perdonato da qualcuno, la società e le istituzioni hanno preferito infliggere una pena. Non voglio dire che la pena sia l’opposto del perdono ma è, concretamente, una sua alternativa. E’ doppiamente faticoso parlare di perdono in un carcere perché il carcere, in quanto alternativa al perdono, trasforma dei colpevoli in vittime.

Voglio essere chiaro: non intendo proporre un innesto del perdono nella giustizia penale.
Nella prospettiva da cui siamo partiti - quella di provare a spezzare il male - credo che la domanda corretta possa essere espressa in questi termini: è possibile nella giustizia penale “partire dalle vittime”?
Io sono profondamente convinto di sì e sono altrettanto convinto che la prospettiva delle vittime sia l’unica a poter garantire una reale riforma della giustizia penale. Ci sono degli strumenti normativi fecondi – penso su tutti alla decisione quadro del 15 marzo 2001 del Consiglio dell’Unione europea sul ruolo della vittima nei procedimenti penali – che sono purtroppo da noi ancora “lettera morta”.

1 RICONOSCERE
Partire dalle vittime significa innanzitutto garantire loro il bisogno e il diritto primario di essere riconosciute. Non c'è riconoscimento delle vittime nel silenzio, nei nascondigli che vengono proposti dalla società, dalle istituzioni e, spesso, anche dalle persone più care alle vittime stesse. Il riconoscimento delle vittime è il punto di partenza e non può che essere operato dal processo. Prima di dire il diritto e di garantire l’accusato, il processo deve riconoscere la vittima, darle un posto, riconoscerne il ruolo e la dignità non solo quando la vittima è un bambino maltrattato, una donna violata o un anziano circuito ma anche quando la vittima è un feroce criminale. La criminologia, le statistiche, la nostra pratica quotidiana ci insegnano che soprattutto i reati violenti colpiscono prevalentemente soggetti forti, persone che a loro volta commettono reati violenti. Questa consapevolezza deve portarci a non riservare l’attenzione alla vittima solo quando essa è debole o indifesa.
Questo riconoscimento consiste nell’informare l’offeso dei suoi diritti, delle sue facoltà, delle opportunità di ricevere assistenza e sostegno. Solo attraverso il riconoscimento la vittima perde la sua funzione puramente strumentale all'esito del processo e si eleva a soggetto giuridico, soggetto di diritti.

2 TRANSITARE
Partire dalle vittime significa in secondo luogo riconoscere che l’offesa criminale non è destinata solo ad un accertamento delle responsabilità ma produce effetti sulla vittima che non possono essere rimossi o trascurati. La denuncia getta le basi per un riconoscimento della vittima; ma al tempo stesso deve transitare la vittima laddove – con un legale, un consulente, uno psicologo – il danno, l’offesa, la sofferenza possono essere trattati. Il processo e la verità dei fatti non redimono né il colpevole né la vittima se non si affronta il rischio della “trasformazione maligna della colpa”.
Per la vittima c’è un altrove rispetto al processo e alla sentenza che è fondamentale.
Io credo che una giustizia penale moderna, dalla parte delle vittime, debba avere questa capacità “transitiva”, di non soffocare e ridurre i sentimenti offesi nella logica giudiziaria e di permettere e agevolare il trasferimento della cura di queste emozioni nei luoghi più appropriati dell’ascolto riservato, del sostegno psichico e dell’accompagnamento.

3 RIPARARE    
Partire dalle vittime significa riparare piuttosto che (oltre che) punire. La riparazione di un illecito è un'esigenza riconosciuta da tutti gli ordinamenti giuridici.
Ma per cercare di assecondare l’esigenza mercantilistica di ricondurre i sentimenti e le emozioni a delle quantità economiche, violando il detto secondo cui “le lacrime non si monetizzano”, ogni società ha finito con il confondere la riparazione con l’indennizzo e il risarcimento.
In effetti la riparazione ha qualcosa di illusorio. Come osservava Hanna Arendt uno dei limiti dell’agire umano è l’impossibilità di rifare quello che ormai è stato disfatto, di ritrovare l’integrità di ciò che è stato irrimediabilmente rotto, di riparare l’irreparabile.
E' vero che, moralmente, la condanna, l’accertamento della verità, la confessione contribuiscono alla riparazione. E' vero che, materialmente, il risarcimento è utile a restituire l’integrità dei beni materiali riparabili o sostituibili.
Ma siamo riusciti a spezzare le catene del male?
Io credo che, per non fermarci ad una visione commerciale della riparazione possa essere di qualche utilità la nozione psicanalitica di “riparazione” perché – a ben vedere – non si tratta tanto di “riparare qualche cosa” ma di “fare riparazione a qualcuno”.
Ma possiamo pensare di fare riparazione a qualcuno che abbiamo offeso senza riconoscere la nostra propria “mancanza”, cioè il fatto che non solo abbiamo "mancato" ma che "manca" qualcosa in noi stessi?
Fare riparazione a qualcuno non significa riempire, purchessia, un vuoto altrui o, al contrario, annullare quanto è stato fatto.
Solo il riconoscimento della mancanza può permettere la messa in discussione personale che fonda il lavoro riparatorio, la possibilità di creare per noi stessi e per gli altri, delle nuove opportunità anziché farsi sopraffare dalla coazione a ripetere.
Possiamo chiedere alla pena, oggi, di rispondere a questa esigenza di “fare riparazione a qualcuno”? Possiamo, cioè, chiedere alla pena che contribuisca in questo senso a “spezzare le catene del male”? O riteniamo, invece, che le pena, sotto le spoglie della sua propensione rieducativa, debba soddisfare solo il compito di legalizzare la vendetta sociale, la vendetta sacra come la definirebbe Paul Ricoeur?

L'unica strada che io riesco a concepire in questa direzione è quella che porta il condannato - non dico ad accettare ma - almeno a "comprendere" (nello stesso senso in cui Edgar Morin collega questo termine al perdono) la pena inflitta, vale a dire a riconoscere la vittima in quanto tale e sé stesso come colpevole, come attore responsabile dei suoi atti.
Così come il delitto rompe la "giusta distanza" con la vittima così la pena, il carcere creano un "eccesso di distanza" non solo dalla vittima ma da tutta la comunità. Questo eccesso non si riduce per il solo fatto che si riduce il tempo della pena. Ecco: il tempo della pena dovrebbe essere riempito proprio per mettere a frutto quest'opera riparativa che, sia pure sinteticamente, ho cercato di indicare.

Marco Bouchard
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