Romanzo mancato
I puerili doppifondi del Grande Complotto e la grande occasione persa dal film su Piazza Fontana
I puerili doppifondi del Grande Complotto e la grande occasione persa dal film su Piazza Fontana
Luigi Manconi
Mi sono accostato al film “Romanzo di una strage” con notevole pregiudizio positivo. Del regista Marco Tullio Giordana ho apprezzato alcuni lavori e i suoi co-sceneggiatori, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, sono persone di grande intelligenza e cultura, i migliori di quella generazione. E tuttavia il film mi ha profondamente deluso.
Mi sono accostato al film “Romanzo di una strage” con notevole pregiudizio positivo. Del regista Marco Tullio Giordana ho apprezzato alcuni lavori e i suoi co-sceneggiatori, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, sono persone di grande intelligenza e cultura, i migliori di quella generazione. E tuttavia il film mi ha profondamente deluso.
Non voglio insistere sugli aspetti gravemente contraddittori, sotto il profilo storico e sotto quello investigativo e giudiziario, già sottolineati in modo incontrovertibile da Adriano Sofri su queste colonne e da Corrado Stajano sul Corriere di mercoledì scorso. Ciò che più mi ha colpito è quella lettura complessiva della vicenda (dall’attentato del 12 dicembre alla morte di Giuseppe Pinelli a quella di Luigi Calabresi, fino alla Gladio e a non si sa bene cos’altro), tutta ispirata dall’irriducibile paradigma del Grande Complotto. Ora, va da sé che l’Italia, di complotti, ne ha conosciuto tanti e quasi sempre rimasti irrisolti, senza l’individuazione di mandanti ed esecutori, ma attribuire l’origine di essi alla responsabilità di un unico cervello politico-criminale, è sommamente pericoloso. In primo luogo perché rischia di deresponsabilizzare i diversi attori, livellandone i differenti ruoli, confondendone tattiche e strategie e impedendo, alla resa dei conti, un’analisi consapevole, fondata su riscontri storici e geopolitici: a favore di una lettura elementare e puerile, dove a dominare è una micidiale macchinazione omnicomprensiva (si veda il bell’articolo di Michele Prospero, sull’Unità di ieri, a proposito della “storiografia del sospetto”). Ma è insidiosa quella lettura anche perché, nella pretesa di tenere tutto insieme in maniera talvolta goffa, finisce con l’interdire qualunque possibilità di conoscenza, e infine, di giudizio. È un rischio al quale il film in questione non riesce a sottrarsi, nonostante l’abilità degli sceneggiatori; e nonostante i molti passaggi davvero significativi (il ruolo della “cellula veneta”, la testimonianza di Licia Pinelli in tribunale, alcune verità storiche efficacemente ricostruite…). Ma il film sarebbe potuto essere ben altra cosa. E proprio a partire da quel dettaglio non irrilevante rappresentato dal termine romanzo, presente fin dal titolo. In verità, la vastissima materia investigativa e giudiziaria, a prescindere dalla sua attendibilità, sopraffà tutto il resto, mortificando il possibile spessore drammaturgico del confronto fra Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Qui il film non coglie la grande opportunità offerta da due magnifici attori come Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino. Interpreti intelligenti e sensibili che avrebbero potuto dar vita alla straordinaria rappresentazione di due figure e personalità e mondi, come in una tragedia classica. Due maschere (nel senso antico del termine) del conflitto tra verità e potere e tra ragione e legge. Un dramma grandioso a prescindere dal giudizio di ciascuno di noi sulle responsabilità per la morte di Pinelli. Ecco, la relazione tra quelle due personalità (compreso il loro rapporto di amicizia, se mai davvero c’è stato) avrebbe potuto costituire una formidabile materia, per la messa in scena di un tragico dilemma morale. È stata invece sovrastata e sopraffatta, quella materia, dal peso abnorme di ingenui doppifondi e implausibili retroscena. Un’occasione perduta per tutti. Poi, fatalmente, il film si porta appresso detriti e scorie. Nel corso di un colloquio con Marco Tullio Giordana (Il Fatto del 27 marzo), chi lo intervista non riesce a trattenersi dal porre la domanda: “teme reazioni dalla lobby di Lotta Continua?”. Il passaggio è significativo. Chiunque abbia visto il film sa bene che Lotta Continua ne risulta totalmente “assolta”. La campagna condotta dal giornale del movimento contro Calabresi – che Adriano Sofri, dieci anni prima che gli venisse mossa qualunque imputazione, definì “sciagurata” - trova uno spazio assai ridotto; e il commissario risulta essere stato vittima, inequivocabilmente, di un “omicidio di Stato”. Dunque, la “lobby di Lotta Continua”, dal film, viene in qualche modo tutelata (forse perché, almeno due degli sceneggiatori, per vie nemmeno troppo tortuose, ne farebbero parte? Ecco una pista su cui indagare, no?). Resta il ricorso ossessivo all’immagine della lobby, che può essere spiegato facilmente. La formula è stata utilizzata da giornalisti che, in quanto abituati esclusivamente a relazioni di natura, per così dire, utilitaristica, faticano a immaginare rapporti diversamente motivati (da affetto, stima, memoria, solidarietà, come ha bene illustrato Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri). Ciò vale ancor di più per i cultori del giustizialismo, e proprio perché il loro sguardo è costantemente offuscato da una visione sordida della realtà. Dove tutto, proprio tutto, è fattispecie penale e latrocinio, inganno e corruzione. Questo spiega anche l’italiano approssimativo e, come dire, non brillantissimo della scrittura giustizialista: qualcosa a metà tra un mattinale di questura, la prosa di un romanzetto pulp malriuscito e il delirio paranoide di un alcolista. Si può fare meglio.
il Foglio 3 aprile 2012
il Foglio 3 aprile 2012
condivido quel che scrivi, in modo particolare per quello che riguarda la deresponsabilizzazione di tutti (tutti) rispetto a quel che è allora e anche prima (le stragi di Stato non cominciano con piazza Fontana) e anche dopo. Ma sopratutto apprezzo l'accenno che fai al romanzo, o forse alla tragedia greca, che tuttora hanno qualcosa da raccontarci. Mi colpisce che nei molti commenti che ho sentito tutta l'attenzione si concentri su quel che è vero, quel che è falso, le cose sono andate così anzi no, in quest'altro modo. Atteggiamento peraltro stimolato dal fatto che questo si potrebbe definire un docu-film, cioè una quelle operazioni che si fanno a ridosso di un evento, magari per fare controinformazione. Ma se il film lo si fa a 42 anni e spiccioli di distanza, è lecito aspettarsi di più!
molti saluti
clara