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slegami
burattino

Politicamente Correttissimo
La stanza dei regali
Luigi Manconi
1- Ero poco più che piccino quando sostenni l’esame di Morale 1 presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Docente era Don Luigi Giussani, che valutò in modo assai lusinghiero la mia prova. Da allora, dalla preparazione di quell’esame, so - nei limiti di una conoscenza certo generica - quale sia la differenza tra morale e moralismo.
E, a rinfrescarla quella differenza, provvede la lettura di vigorosi, e talvolta temibili interventi di monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino; e persino (se non altro per contrasto) le fattuità soffuse di cipria dello scicchissimo monsignor Rino Fisichella teoreta del “contesto”. Questo per dire che: A- siamo tutti sporcaccioni. B- tra l’essere “un vecchio porco” (Maurizio Belpietro dixit) e l’essere “un buon cristiano” (Silvio Berlusconi a proposito di sé medesimo) non c’è alcuna incompatibilità (per certi versi si può dire: anzi), ma solo ed esclusivamente un fertile conflitto, che il sacramento della confessione è chiamato a riparare; o, psicanaliticamente, a elaborare e sublimare. C- il moralismo è roba da beghine (o, in Veneto, da basa banchi), mentre la morale è una categoria forte per cristiani robusti. Proprio così. La morale non corrisponde affatto all’elenco di peccati e peccatucci da rimproverare, lividi e maligni, ai vicini di casa, ma è la consapevolezza di una faticosa, e non semplice né lineare, opera di distinzione tra il bene e il male. Un’impresa improba dove sono in gioco principio di libertà e cura dell’altro, volontà di autodeterminazione e vincolo di reciprocità, desiderio intimo e bene pubblico, azione e astensione, emancipazione ed educazione. Giusto. E tutto ciò deve muoversi su una linea che, per convenzione sociale, è quella dell’equilibrio e del buon gusto. Giuliano Ferrara da un quindicennio esalta la potenza sovversiva di Silvio Berlusconi, capace di ribaltare proprio quella linea e di affermare, nel trionfo dell’Autentico,  una nuova e selvaggia verità. A me sembra l’esatto contrario. Si, è il tripudio dell’arcitaliano, ma nella sua versione più tetra (come dice Ruby: “Berlusconi è un uomo non tanto felice”), quella che ha per archetipo il chiagn’e fotte. Mi spiego. Conciliare quello stile di vita, per così dire movimentato e “l’Eucarestia per i divorziati” non è il segno di una vitalità grandiosa e felice e di una bulimia generosa e gradassa: è proprio moralismo, e nella sua versione più piccina. Quella dal sapore dolciastro di limoncello e sguardi obliqui, fatta di compunzione impettita e lettere anonime, di risatine e giaculatorie.
Non solo. Spiegare che “settemila euro” o regali sfarzosi nulla hanno a che vedere con il mercimonio non è così semplice per il Premier di un governo che ha voluto leggi ancora più restrittive (autoritarie e illiberali e antigarantiste) in materia di prostituzione.
Insomma se ricopri un ruolo istituzionale, un qualche senso della misura – stropicciato magari, stiracchiato e allungato con extension – lo devi pure salvaguardare. Se no, fai altro: che so, il direttore di un giornale o il commentatore di un giornale. Ma se fai il premier un qualche straccio di equilibrio lo devi preservare. Così, per una questione di stile. La minore età, per esempio, può costituire un limite da non superare. Certo, quando si parla di stile, il terreno si fa subito scivoloso. Di più: sdrucciolevole. Ma la tentazione è irresistibile. Qua siamo tutti infimo-borghesi o, al meglio, piccolo-borghesi (io almeno lo sono) e la vecchia lezione di Hans Magnus Enzesberger sulla “piccola borghesia come classe generale”, la ricordiamo. Eppure leggere di quella “stanza dei regali” nella Villa di Arcore, “dove tutto è ordinatamente diviso per valore simbolico o economico” e dove si trovano, oltre a tutto il resto, “cravatte”, mi ha aperto gli occhi. Ora capisco perché, in parlamento e nelle sue prossimità (giornalisti e funzionari, grand commis e dirigenti pubblici), tanti portino quelle orribili cravatte falso-Hermès o, peggio mi sento, vere-Hermès: e persino simil-Marinella o, dio non voglia, autentiche Marinella.



2-     Ha scritto ieri Giuliano Ferrara: “alla radice di questo dilagare della questione di diritti, che ha impoverito e indebolito gli operai e consentito alla borghesia  industriale di fare mille giochini ballando intorno al nodo del salario e della produttività, c’è il 1968”.
Per un fioretto fatto tempo fa, e rigorosamente osservato, non posso citare quell’anno né quello successivo (se non tra virgolette, quando è un altro a richiamarli) perché sovraccarichi di senso e onusti di equivoci, ma voglio ricordare a Ferrara che fu proprio a partire da quel periodo che si sviluppò una grande lotta salariale, che chiedeva aumenti assai consistenti. E quel volerli “uguali per tutti” derivava, insieme, dalla sacrosanta scoperta della dimensione dei diritti individuali (e quello di sciopero è, tra l’altro, un classico novecentesco diritto soggettivo) e dall’analisi delle profonde trasformazioni avvenute nella composizione sociale del lavoro salariato e nella struttura dell’organizzazione produttiva.

il Foglio 18gennaio 2011
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