Politicamente correttissimo
Marxisti al Foglio
Interessante lettura a liberismo rovesciato del caso articolo 18. Ma si cade nel veterosindacalismo.
Luigi Manconi
Finalmente. Finalmente, con l’editoriale di ieri, Il Foglio affronta –come mai finora nel panorama giornalistico italiano- la questione dell’articolo 18 quale grande problema di classe. Nel senso marxiano del termine, va da sé. Come premessa, Giuliano Ferrara scrive che “i liberisti sono marxisti rovesciati”. Forse, proprio il fatto che sono stato “poco marxista” all’epoca può spiegare perché oggi mi trovo a essere così poco liberista: ma, a esser sinceri, non è che  Ferrara  e la sua enclave politico-culturale, quarant’anni fa, fossero marxisti in termini così ortodossi, come qualcuno oggi vorrebbe. Figuriamoci. Ciò contribuisce a spiegare perché il Ferrara  liberista finisca con l’argomentare in una maniera vetero-comunista e vetero-sindacalista –ancorché “rovesciata”- la propria contestazione verso l’articolo 18, la sua concettualizzazione generale e il suo significato simbolico ultimo. Così Ferrara: “un forte potere d’acquisto dei lavoratori e un mercato generoso di occasione sono le condizioni di base per l’esercizio di un responsabile ed efficace potere sindacale, basta guardare all’America”. Ma un simile ragionamento si fonda su un’idea fabbrichista  ed economicistica del lavoro salariato, che non regge più. E proprio perché sono il sistema della produzione e l’organizzazione del lavoro ad aver subito incalcolabili trasformazioni. In altre parole il sindacalismo al quale sembra  guardare Il Foglio (e al quale Il Foglio vorrebbe che guardasse la Cgil) è quello delle cellule del Pci e delle commissioni interne, egemonizzate dalla Cgil, del secondo dopoguerra. Ma, da allora, pressoché tutto è cambiato e, in particolare, si è assistito al tramonto della grande fabbrica, alla riorganizzazione dell’impresa e alla dispersione degli operai. I fenomeni di ristrutturazione industriale si sono intrecciati con le tendenze al decentramento, e poi alla delocalizzazione, di molte lavorazioni e di interi settori produttivi. È la composizione stessa del lavoro salariato che viene ridefinita. Ciò si realizza, essenzialmente, in una direzione: quella della frammentazione, fino alla polverizzazione, della “comunità operaia”. È questa la prima ragione, non l’unica ma quella fondamentale, del fallimento della politica salariale, di cui il pansindacalismo  è una delle  conseguenza non la causa. Un  fallimento che, in ultima istanza, ha portato alla mutazione descritta dal Foglio: la trasformazione dei  lavoratori “da sfruttati, cioè soggetti di un rapporto sociale che si chiama capitalismo, a oppressi ovvero sudditi di una società che nega diritti”. Il richiamo alle garanzie previste dal sistema dei diritti di cittadinanza, extra-aziendali e universalistici, diventa obbligato per proteggere un salariato (mal salariato), sempre più isolato e sempre meno tutelato, sul luogo di lavoro, dall’unità della linea, del reparto, della fabbrica. E dunque sempre meno dotato di potere contrattuale e di capacità conflittuale nel negoziare –marxianamente, ancora una volta- il prezzo della forza-lavoro e, di conseguenza, il potere d’acquisto del salario. Il lavoratore, in quella condizione di dissoluzione dell’unità produttiva, non può ne difendere adeguatamente il proprio salario ne assicurarsi le garanzie giuridiche e contrattuali che possano contribuire a quella difesa. Esemplare è il ruolo che, via via, è andata assumendo la Fiom, e il suo segretario generale, Maurizio Landini. Il sindacato e il sindacalista più “americani” e più “salarialisti” (al di là delle apparenze), si sono trovati costretti a svolgere  una funzione politica e iper-politica. Come potevano fare altrimenti, considerato che la radice profonda della loro identità economico-salariale e aziendale-contrattuale è stata rimossa brutalmente, attraverso l’esclusione della Fiom dalla stessa vita di fabbrica? Infine, quando Ferrara definisce l’articolo 18 “una posta in gioco poco più che simbolica” dice bene e male insieme. Forse è vero che la difesa di quell’articolo ha oggi una funzione quasi solo “ideologica”, ma guai a dimenticare che intorno a essa si gioca una partita che rimanda al destino sociale del lavoro salariato nel nostro paese. Marxianamente, off course.
il Foglio 20.3.2012
Politicamente correttissimo
Marxisti al Foglio
Interessante lettura a liberismo rovesciato del caso articolo 18. Ma si cade nel veterosindacalismo.
Luigi Manconi
Finalmente. Finalmente, con l’editoriale di ieri, Il Foglio affronta –come mai finora nel panorama giornalistico italiano- la questione dell’articolo 18 quale grande problema di classe. Nel senso marxiano del termine, va da sé. Come premessa, Giuliano Ferrara scrive che “i liberisti sono marxisti rovesciati”.
Forse, proprio il fatto che sono stato “poco marxista” all’epoca può spiegare perché oggi mi trovo a essere così poco liberista: ma, a esser sinceri, non è che  Ferrara  e la sua enclave politico-culturale, quarant’anni fa, fossero marxisti in termini così ortodossi, come qualcuno oggi vorrebbe. Figuriamoci. Ciò contribuisce a spiegare perché il Ferrara  liberista finisca con l’argomentare in una maniera vetero-comunista e vetero-sindacalista –ancorché “rovesciata”- la propria contestazione verso l’articolo 18, la sua concettualizzazione generale e il suo significato simbolico ultimo. Così Ferrara: “un forte potere d’acquisto dei lavoratori e un mercato generoso di occasione sono le condizioni di base per l’esercizio di un responsabile ed efficace potere sindacale, basta guardare all’America”. Ma un simile ragionamento si fonda su un’idea fabbrichista  ed economicistica del lavoro salariato, che non regge più. E proprio perché sono il sistema della produzione e l’organizzazione del lavoro ad aver subito incalcolabili trasformazioni. In altre parole il sindacalismo al quale sembra  guardare Il Foglio (e al quale Il Foglio vorrebbe che guardasse la Cgil) è quello delle cellule del Pci e delle commissioni interne, egemonizzate dalla Cgil, del secondo dopoguerra. Ma, da allora, pressoché tutto è cambiato e, in particolare, si è assistito al tramonto della grande fabbrica, alla riorganizzazione dell’impresa e alla dispersione degli operai. I fenomeni di ristrutturazione industriale si sono intrecciati con le tendenze al decentramento, e poi alla delocalizzazione, di molte lavorazioni e di interi settori produttivi. È la composizione stessa del lavoro salariato che viene ridefinita. Ciò si realizza, essenzialmente, in una direzione: quella della frammentazione, fino alla polverizzazione, della “comunità operaia”. È questa la prima ragione, non l’unica ma quella fondamentale, del fallimento della politica salariale, di cui il pansindacalismo  è una delle  conseguenza non la causa. Un  fallimento che, in ultima istanza, ha portato alla mutazione descritta dal Foglio: la trasformazione dei  lavoratori “da sfruttati, cioè soggetti di un rapporto sociale che si chiama capitalismo, a oppressi ovvero sudditi di una società che nega diritti”. Il richiamo alle garanzie previste dal sistema dei diritti di cittadinanza, extra-aziendali e universalistici, diventa obbligato per proteggere un salariato (mal salariato), sempre più isolato e sempre meno tutelato, sul luogo di lavoro, dall’unità della linea, del reparto, della fabbrica. E dunque sempre meno dotato di potere contrattuale e di capacità conflittuale nel negoziare –marxianamente, ancora una volta- il prezzo della forza-lavoro e, di conseguenza, il potere d’acquisto del salario. Il lavoratore, in quella condizione di dissoluzione dell’unità produttiva, non può ne difendere adeguatamente il proprio salario ne assicurarsi le garanzie giuridiche e contrattuali che possano contribuire a quella difesa. Esemplare è il ruolo che, via via, è andata assumendo la Fiom, e il suo segretario generale, Maurizio Landini. Il sindacato e il sindacalista più “americani” e più “salarialisti” (al di là delle apparenze), si sono trovati costretti a svolgere  una funzione politica e iper-politica. Come potevano fare altrimenti, considerato che la radice profonda della loro identità economico-salariale e aziendale-contrattuale è stata rimossa brutalmente, attraverso l’esclusione della Fiom dalla stessa vita di fabbrica? Infine, quando Ferrara definisce l’articolo 18 “una posta in gioco poco più che simbolica” dice bene e male insieme. Forse è vero che la difesa di quell’articolo ha oggi una funzione quasi solo “ideologica”, ma guai a dimenticare che intorno a essa si gioca una partita che rimanda al destino sociale del lavoro salariato nel nostro paese. Marxianamente, off course.
il Foglio 20.3.2012
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