Il tempo della musica italiana da De André ai Baustelle
Walter Veltroni
Ho letto il libro di Luigi Manconi La musica è leggera tra una manifestazione e l’altra di questa campagna elettorale. L’ho letto per lo più sui treni. Che sono tornati ad essere, sorpresa della tecnologia, il più rapido e razionale mezzo di spostamento interno del nuovo millennio. Salvo ovviamente per i pendolari che, come la terza classe dei piroscafi di un tempo, continuano a viaggiare in modo barbaro, perché la società è drammaticamente ingiusta. Ancora, sempre. Il treno è, comunque, un luogo a suo modo magico, le relazioni umane con i vicini sono del tutto diverse da quelle frettolose di un Roma-Milano tra le nuvole.
Ci sono, a descrivere quell’incanto, le pagine memorabili sul fante Tomagra in L’avventura del soldato di Italo Calvino o, più recentemente, l’incredibile e avvincente breve racconto erotico Facciamo un gioco di Emmanuel Carrère. Il treno è anche una dimensione che riesce ad essere atemporale, perché quando si esce dai confini urbani e si trovano le campagne i paesaggi possono farsi eterni. E può capitare di ritrovare scenari non diversi da quelli che Simone Martini aveva davanti ai suoi occhi, settecento anni fa.

IL PANE E LE ROSE

Il libro di Luigi Manconi per me è, in primo luogo, un libro sul tempo. Su quello della sua vita, perché l’autore usa la musica come una madeleine proustiana. E racconta, senza pudori, la sua formazione, la sua Sardegna, il suo arrivo a Roma, la sua militanza politica attraverso le canzoni, per lo più italiane. Persino le turbolenze della pubertà. È divertente il racconto di una sua telefonata ad un attonito e divertito Gino Paoli in cui cerca di convincere l’autore di Il cielo in una stanza del potenziale evocativo di lussuria della frase «Mi sembra un organo che vibra per me e per te». Paoli risponde, e temo abbia ragione, che quella interpretazione è da attribuire «all’ossesione masturbatoria della gioventù periferica più repressa».
Manconi è un vero esperto di musica, lo è da sempre. Da quando, con lo pseudonimo di Simone Dessì, e spesso con Gianni Borgna, scriveva coraggiosi libri su Gino Paoli o Lucio Dalla o Francesco De Gregori. Libri pubblicati con copertine estatiche disegnate con grazia, anticiclica, da quel genio di Pablo Echaurren e pubblicati da Samonà e Savelli in una mitica collana che si chiamava, non per caso, «Il pane e le rose». Mi sono sempre chiesto la ragione della scelta di uno pseudonimo. Temo che fosse il bisogno di distinguere in quegli anni di politica onnicomprensiva e totale, parliamo del ’76-77, le diverse dimensioni della vita. Come se all’autorevole dirigente di Lotta Continua fosse impedito, dallo spirito del tempo, di occuparsi di frivolezze come la musica. Simone Dessì è dunque come l’Antoine Doinel, il personaggio dei film di Truffaut. Cammina vicino, come un’ombra, a Luigi Manconi. Ma i due fanno finta di non riconoscersi. Ora si sono ritrovati, riunificati e non hanno timori a raccontare le loro reciproche dipendenze.
A me di Luigi è sempre piaciuto il suo eclettismo. Proprio l’essere una persona curiosa di tutto, appassionata di molto, estranea a poco. Ha scritto di Fausto Coppi e qui si occupa con passione di Ricky Gianco, difende i diritti dei carcerati con inesausta passione e si esalta per Benito Urgu, leader dei Barritas, gruppo che originariamente si chiamava Gatto Nero Enal. Lo ritrova al Piper, luogo nel quale arriva, al centro dei meravigliosi anni sessanta, insieme al suo amico Giuseppe un po’ con lo stesso stupore affascinato con il quale, in Roma, il giovane Fellini viene raccontato al primo impatto con la capitale. Per questo il sassarese Urgu, nel tempio della modernità più moderna, ha come l’effetto degli spaghetti per gli italiani in Kazakhistan. Urgu fa casa. E testimonia che, in fondo, in quel tempo per tutti c’era una chance. Si poteva cominciare con l’Enal e finire fianco a fianco al carisma naturale di Patty Pravo. Nel libro, che è scritto con grande proprietà, si assapora un clima divertito e divertente. Sembra una edizione letteraria del mai sufficientemente celebrato Liquirizia di Salvatore Samperi, che viene citato indirettamente attraverso un racconto, che sembra un soggetto, di Gianfranco Manfredi.

COME PUÒ UNO SCOGLIO

È come se ciascuno di noi fosse guardato nel suo passato. Manconi parla di una vita che tutti abbiamo vissuto, incontrato, conosciuto, o almeno visto in quel tempo. Quando tutto si mischiava, quando anche la musica era divisiva. Divideva politicamente e generazionalmente: ricordo un memorabile confronto, processo, scontro al Sistina tra i Giganti e Claudio Villa, il racconto del passaggio di un’epoca; dell’Italia contadina che era diventata industriale, dell’Italia della radio che era passata alla televisione, dell’Italia in cui una frase impegnata era ora più importante di un acuto ben assestato.
Manconi ci fa viaggiare lungo cinquant’anni di canzoni con uno spirito lieve ma non superficiale. Sembra di sfogliare un album di fotografie delle quali, tutte, si ricorda il momento in cui sono state scattate. E questo mi ha fatto pensare che le nostre generazioni, quelle che hanno respirato il clima di quei due decenni indimenticabili, hanno, per ragioni oggettive, dei forti elementi di unificazione culturale. Vedevamo gli stessi film, spesso nella stessa tipologia di luoghi, ascoltavamo la stessa musica, leggevamo gli stessi libri, quasi sempre comprati in librerie simili, portavamo una bandiera nel cuore, e non il rimpianto di averla avuta. Ma, metti una sera a cena, dei ragazzi di allora e, come magicamente, spunterà un esperanto assai più universale di quanto si creda. Come l’autore racconta Battisti non era di destra, come lo stupido furore ideologico di quegli anni faceva credere. E nonostante il Berufsverbot stupidamente imposto io credo che tutti i Simone Dessì e tutti i Luigi Manconi si passassero un buon bicchiere di vino quando cantavano, insieme, «Come può uno scoglio arginare il mare». Tutti in quella cena avrebbero da raccontarsi dell’amore di Daria Halprin e Mark Frechette in Zabriskie Point, di Garcia Marquez o di Garabombo l’invisibile e di quel giorno che Adriano parlò a Rimini del terremoto o di quello in cui Berlinguer si prese gli insulti da sinistra per aver invocato una austerità socialmente equa. E se qualcuno avrà portato una chitarra tutti avranno qualcosa da cantare. Basta leggere le pagine del libro per trovare mille musiche che abbiamo conosciuto, vissuto, metabolizzato. Perché quel tempo, rompendo i vecchi muri, è stato quello delle grandi esperienze collettive, unificate, universali.
La politica, certo. Le rabbie, le speranze, le illusioni vissute insieme. Lo erano le sezioni, i collettivi, le parrocchie. Ma lo erano Sanremo, Canzonissima, persino il Cantagiro o il Disco per l’estate. Lo era la televisione che vedevamo, tutti la stessa e tutti contemporaneamente. Avevamo di meno, meno scelta. E dunque meno libertà. Ma quello che c’era era di tutti. E ancora oggi basta richiamarlo perché ritorni, e si sieda in mezzo a tutti e nessuno gli chieda da dove sia sbucato.. Il libro mi ha fatto pensare a una sera a cena tra vent’anni dei ragazzi che oggi hanno vent’anni. Loro sono più ricchi e forse più consapevoli, perché hanno mille scelte: la rete, i social network, you tube, centinaia di canali televisivi, la fruizione enciclopedica della musica di itunes. Ma questa messe di opportunità forse priva della possibilità di costruire un tessuto unificante, in qualche modo generazionale o «storico» del proprio vissuto. È un tempo di milioni di fiori, ma un tempo spezzettato.

E I BEATLES?

Temo che in quella serata del 2023 i ragazzi di oggi, allo spuntare di una chitarra, per trovare una canzone da cantare davvero tutti insieme ricorreranno a Hey Jude o a Let it be. A proposito: non ho fatto cenno alle preferenze di Manconi. Ai suoi amori e ai suoi rari disamori. I gusti non si discutono. Ma l’autore fa un gioco tanto divertente quanto difficile: sceglie le 201 canzoni più belle del tempo preso in esame. «Non capisco ma mi adeguo» diceva un personaggio di quell’altro tipo speciale che è Renzo Arbore. Ma ad una cosa non posso adeguarmi: la totale assenza di qualsiasi pezzo dei Beatles. Nella graduatoria non ci sono solo brani italiani e dunque non valgono motivazioni autarchiche. Per questo non discuto che tra le duecentouno canzoni più belle della storia ci siano Sal da Vinci o Mario Merola ma discuto che non ci siano Lennon e Mc Cartney.È un bel libro, davvero. Il libro di un uomo colto e curioso. Un libro scritto bene. Tutto insieme. Non è poco. Ivano Fossati ha scritto, secondo me, uno dei più bei testi della canzone italiana.
Sono le parole di C’è tempo: «È tempo che sfugge, niente paura che prima o poi ci riprende, perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo per questo mare infinito di gente». La musica è leggera è tempo che ci riprende.

l'Unità 6 maggio 2012
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