Habeas corpus
Luigi Manconi
1.    Informazione di servizio. La terza sezione penale della Corte d'Assise di Roma non ha affatto affermato che, in relazione alla morte di Stefano Cucchi, "nessun pestaggio c'è mai stato". Dire questo equivale a una sesquipedale sciocchezza. Quella Corte si è limitata a dichiarare che le prove portate dalla Procura a carico dei poliziotti penitenziari rinviati a giudizio non sono da ritenersi sufficienti.

2.    Cogliamo l'occasione per parlare ancora di carcere. Il 27 maggio scorso la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo ha confermato la sentenza-pilota che obbliga l’Italia ad adottare rimedi strutturali per il sovraffollamento penitenziario. E’ cominciato così il conto alla rovescia che deve portare al ripristino della legalità penitenziaria entro un anno dalla decisione. Non mancano le proposte per uscire da questa impasse, da quelle orientate alla riduzione degli ingressi in carcere a quelle finalizzate alla riduzione della detenzione dei condannati e al potenziamento delle alternative. Fino all’adozione di misure straordinarie di clemenza, quali l'amnistia e l'indulto: provvedimenti sacrosanti, previsti dalla nostra Costituzione, e che hanno dato ottima prova di sé, ancorché con effetti temporanei (questo vale anche per l'indulto del 2006, bistrattato fino alla diffamazione da quanti continuano a ignorarne i reali effetti positivi). Solo una straordinaria accidia morale e una diffusa pavidità politica impediscono di prenderli ora in considerazione, come propongono i Radicali, quale misura d'eccezione per uno stato d'eccezione: scelta indispensabile per introdurre quell'elemento di "normalità", che potrebbe consentire le riforme strutturali che tutti a parole dicono di preferire. In ogni caso, e qualunque sia la soluzione adottata, risulta essenziale preliminarmente un orientamento chiaro in materia di carcere, pena e marginalità sociale. Un orientamento alternativo a quello che abbiamo visto all’opera in questi anni. Il sovraffollamento non è infatti il prodotto di una fatalità, ma il risultato di decenni di politiche penali e, addirittura, di un modello di difesa e controllo sociale, come spiega efficacemente Stefano Anastasia nel suo Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale (Ediesse, pp. 156, € 12). Non diversamente dagli Stati Uniti e da molti Paesi occidentali, anche l’Italia ha subìto, negli ultimi vent’anni, la fascinazione di politiche della sicurezza fondate sulla rimozione e la esclusione del disagio sociale e della devianza. Ai vecchi progetti di sostegno, recupero e reinserimento ispirati al modello del welfare state, sono subentrate pratiche di esclusione e di espulsione della marginalità sociale. Non è un caso che, a partire dai primi anni Novanta, la stessa giurisprudenza costituzionale italiana sia andata concentrando la propria attenzione sul divieto dei trattamenti contrari al senso di umanità piuttosto che sulla funzione rieducativa della pena: via via che il contesto politico-sociale veniva cambiando, inevitabilmente – sostiene Anastasia – la Consulta ha dovuto concentrare la propria attenzione sulla protezione della “nuda vita” delle persone private della libertà. Del resto, un simile mutamento di prospettiva non è solo (né principalmente) italiano. Abbiamo detto della Corte europea dei diritti dell'uomo, ma analoga attenzione alla materialità e alla tollerabilità delle condizioni di detenzione è venuta recentemente da storiche sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti e della Corte costituzionale tedesca che hanno posto più o meno esplicitamente all’ordine del giorno sia una politica di decarcerizzazione, sia la necessità di una clausola di salvaguardia, a protezione dell’habeas corpus dei detenuti. Una clausola che impedisca la privazione della libertà in condizioni di violazione dei diritti fondamentali della persona. Lo diceva qualche giorno fa Giovanni Tamburino, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in occasione dell’assemblea annuale della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia: come l’ordinamento ha riconosciuto la legittimità di condizioni di sicurezza tali da mettere in discussione le ordinarie regole del trattamento penitenziario, attraverso l’applicazione dell’articolo 41bis, così deve prendere in considerazione una situazione specularmente opposta. Dunque, quando si verifichino condizioni di detenzione illegittime, perché contrarie a norme costituzionali e internazionali di protezione dei diritti umani, l’esecuzione penale può e deve essere sospesa. In questo senso, del resto, si sono recentemente pronunciati due tribunali di sorveglianza (Venezia e Milano), sollevando questioni di costituzionalità laddove il codice penale, quella sospensione, non prevede.
Insomma, se si vuole intervenire efficacemente e durevolmente sul sovraffollamento penitenziario, non ci si può precludere alcuno strumento, da quelli ordinari (depenalizzazione dei reati minori, potenziamento delle alternative al carcere...) a quelli straordinari, già ricordati. Ma tutti questi strumenti vanno sostenuti da un’opzione di carattere generale per un modello sociale inclusivo, e garantiti da una clausola di salvaguardia che impedisca di scaricare sui detenuti la responsabilità di scelte politiche improvvide o inefficaci.

il Foglio 12 giugno 2013

Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.