Politicamente correttissimo
La vita è bellica

Luigi Manconi
Ho gentilmente declinato il gentile invito rivoltomi da Massimo Giletti, a partecipare a un confronto televisivo sulle questioni di “Fine vita” con Marco Tarquinio, direttore di Avvenire (che molto stimo) e con Eugenia Roccella. Il motivo è semplice: ho ritenuto impossibile evitare una rappresentazione marziale, e caricaturale, della controversia etica (con la Roccella, poi), sul modello della contrapposizione acerrima tra due partiti: Pro-vita e Pro-morte.
E, indubbiamente, una eco simile risuona in tutta la querelle successiva alla puntata di “Vieni via con me” che ha ospitato Bepino Englaro e Mina Welby. Il foglio del 26 novembre, con una (posso?) grossolanità che non gli è consueta, arriva a opporre così i due partiti: “le concrete vite di concrete persone bisognose di tutto e accudite in silenzio da chi le ama” versus “Beppino Englaro e Mina Welby, guerrieri del diritto a morire e dell’eutanasia di Stato”. Ma come vi permettete?  È una rappresentazione povera, persino miserevole, che esprime la pietas in maniera discriminatoria, negando a Eluana Englaro e a Piergiorgio Welby quello statuto di “concrete persone accudite in silenzio  da chi le ama”, concesso ad altre. Sul Foglio di ieri, poi, Giuliano Ferrara torna sull’argomento con una notazione condivisibile (Englaro e Welby sono anche “un manifesto ideologico”, così come lo sono “quei malati di Sla che vogliono vivere”): ma Ferrara  crede a tal punto a quella rappresentazione bellica da sostenere che “è in atto nella cultura occidentale un conflitto tra assoluti, vita o morte”. Se così fosse, dove collocherebbe Pio XII? Quel Papa, nel 1957, rispondeva positivamente - “è permesso dalla religione e dalla morale” - al quesito sulla liceità della “soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita”. Ci sono più cose in cielo e in terra…
A sua volta, Antonio Socci (Libero, 24 novembre), in risposta a Michele Serra (la Repubblica, 23 novembre), espone, con scrittura drammatica e appassionata (frutto anche di una tragica esperienza personale, ma le sue posizioni sono quelle da sempre), la situazione dei malati affetti da gravi malattie invalidanti o in coma o in stato vegetativo. E le  immani fatiche, loro e dei loro familiari, per continuare a vivere. Conosco molto bene alcune di queste situazioni e non aggiungerei e non modificherei alcunché dell’articolo di Socci. Eppure quello scritto, nonostante le intenzioni dell’autore (che so essere le migliori), rientra perfettamente in quella logica marziale prima ricordata. L’intero articolo converge, infatti, su un solo esito: la contrapposizione tra quanti intendono continuare, spes contra spem, la propria esistenza e quanti chiedono di “poter tornare alla casa del Padre”; o in termini non religiosi – pur se utilizzati da un uomo di fede come Giovanni Reale – di “lasciarmi morire come ha stabilito la natura”. Ma, oltre a tale inaudita contrapposizione, c’è qualcos’altro che, l’articolo di Socci rivela. Ed è un’idea di superiorità morale e di primato etico. Quasi che la lunghissima agonia di Eluana Englaro e la fatica indicibile del vivere di Piergiorgio Welby e dei loro cari non siano stati altrettanti, e altrettanto inestimabili, atti d’amore.
Ma che sia possibile sottrarsi alla logica bellica dei due partiti, è dimostrato esemplarmente dal fatto che all’interno di uno dei due supposti schieramenti, si è udita in questi giorni, una voce equilibrata che (in un articolo su Liberal del 27 novembre) mette le cose a posto, per quanto è possibile, e procede per distinzione. Laura Palazzani spiega bene come parlare indifferentemente di eutanasia a proposito delle vicende di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby sia approssimativo e – in particolare nel caso di Welby – improprio. E (ma questo lo aggiungo io) persino un po’ cialtronesco.

Post scriptum.
Concludendo il suo articolo di ieri Ferrara lamenta il fatto che in Italia non ci sia una “tv liberale, una tv con sense of humor, una tv cattolica, una tv di destra, una tv capace di guardare i problemi del tempo”. Tanto più, aggiungo io, che una simile bancarotta culturale della destra si accompagna ai ripetuti successi politico-elettorali e – peggio mi sento  - alla persistente egemonia su gran parte del senso comune e della mentalità condivisa (nonostante i dieci milioni di spettatori per “Vieni via con me”). Affaccio, come si dice, una suggestiva ipotesi: e se il successo politico e l’egemonia ideologica della vera destra (quella di Er Pomata Pagnottella e Rottinculo), quella che piace a Ferrara solo perché può riderci sopra sorseggiando un Montrachet Grand Cru Romanèe Conti 1996 e leggendo Wittgenstein in lingua originale, richiedessero per affermarsi proprio la condizione di minorità, se non l’insignificanza, della destra colta? Quella che conosce le lingue e il lato in penombra delle cose.



il Foglio 30 novembre 2010
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