Grillo e il falso mito
della politica online
Luigi Manconi
“Cinque anni di una vita annullata per costruire un sogno”: così Giovanni Favia, consigliere regionale di 5 Stelle, racconta la crisi della sua esperienza politica a Lilli Gruber, due sere fa, nel corso di Otto e mezzo (La 7). La frase è estremamente eloquente, e ancora più lo è  la sua tonalità emotiva. Ma c’è in quelle parole un’enfasi solenne e un po’ eroicistica, che risulta la prova provata di un gigantesco equivoco. È come se quel consigliere regionale, così simpatico e gradevole, pensasse molto seriamente di essere il primo, o uno dei pochissimi, ad aver conosciuto le fatiche e i sacrifici che la militanza politica comporta. Qui emerge un nodo cruciale: 5 Stelle e altri recenti movimenti si comportano come se la politica – quella autentica e “in carne e ossa” – iniziasse con loro. E che, in ogni caso, il fatto di dedicarvisi fosse già esso un evento enormemente innovativo, tanto più perché disinteressato e generoso. Le cose non stanno proprio così. Anche adesso, nel momento in cui la politica conosce il massimo discredito, i partiti patiscono la più cocente disaffezione e la partecipazione sembra ridursi al minimo, anche adesso la militanza politica sopravvive: conosce mille sconfitte ma anche qualche vittoria, arretra e tuttavia conserva una certa vitalità. Tra i radicali, sicuramente, e con inalterata passione e lena, ma anche in alcune aree del Pd e di Sinistra Ecologia e Libertà, in segmenti della destra (persino in quelli confluiti nel Pdl) e qui e là, a macchia di leopardo. E mi riferisco alla politica intesa in senso classico: quella basata sulla prossimità. Ovvero sulla possibilità di incontrarsi nello stesso luogo, per comunicare direttamente e faccia a faccia, per confrontare opinioni e battersi per il prevalere dell’una sull’altra, per mettere insieme le forze e perseguire un obiettivo. Insomma, per mobilitare, aggregare persone, incoraggiare gli incerti, persuadere i critici, galvanizzare i già convinti. Ciò si fa sempre meno, certamente, ma lo si continua a fare: in circoli e sezioni, in luoghi di lavoro, nel corso di comizi e di manifestazioni. E a produrre tutto ciò sono, appunto, i militanti politici. E una certa quota tra coloro che  rivestono ruoli pubblici. Lo stesso Favia ha rivendicato il fatto che  - e anche in questo sembrava fosse l’unico al mondo – trattenga per sé solo 2700 euro dei 9000 dell’indennità percepita dai consiglieri regionali dell’Emilia Romagna. Si tratta di una scelta meritoria ma va ricordato che non solo il Pci e il Psi ma anche la Dc e altri ancora, e alcune forze politiche della seconda repubblica prevedevano che una quota degli emolumenti di parlamentari e consiglieri fosse destinata al rispettivo partito. E per alcuni, la regola vale tuttora. Non c’è dubbio, tuttavia, che quella forma tradizionale della politica e quella forma tradizionale del partito attraversino oggi, una crisi profonda, come mai nella storia dell’Italia repubblicana. Ed è proprio per questo che il “caso Favia” costituisce un segnale estremamente significativo. a) perché rappresenta un ulteriore fattore di disgregazione della rappresentanza, anche nelle sue più recenti espressioni; b) perché certifica l’omologarsi della sedicente “nuova politica” a quella tradizionale; c) perchè, infine, offre la prova inconfutabile della inadeguatezza dei nuovi strumenti di partecipazione (quelli online). Va da sé: la vicenda del consigliere regionale è, in primo luogo, l’effetto inevitabile, e fisiologico, di una crescita così rapida e, in qualche caso travolgente, del movimento promosso da Beppe Grillo. Insomma, come quegli adolescenti che, da una stagione all’altra (o da un giorno all’altro), si sviluppano in maniera sorprendente: crescita abnorme degli arti  ed esplosione dell’acne. Ma le dinamiche e i linguaggi che questa crisi di 5 Stelle fa emergere sono davvero interessanti: come si diceva, riproducono mimeticamente tutto, ma proprio tutto, l’apparato culturale e politico dei conflitti interni ai partiti tradizionali. Ovvero la doppia verità (quella che si dice in pubblico e quella dei colloqui riservati); i riti della condanna e dell’isolamento e, specularmente, quelli dell’autocritica, della riparazione e dell’espiazione; le accuse di slealtà e di “intelligenza col nemico” (il Pd, in questo caso) e le ricostruzioni tanto minuziose quanto sgangherate di congiure e complotti. E, ancora,infiltrati e sicari, oscuri disegni e parentele imbarazzanti, sabotaggi e tradimenti. A chi giova e cui prodest. E così, all’istante, sulla discussione interna a 5 Stelle, sui messaggi e sui post, sui forum e sulle mailing list, si abbatte il clima tetro, che sempre domina la politica, quando il confronto si fa scontro senza quartiere. Tutto ciò che prima era arioso e fresco, come le “nuove forme di democrazia e partecipazione”, diventa cupo quanto l’atmosfera dell’hotel Lux di via Gorki a Mosca, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Certo che esagero, lo so bene. Ma è altrettanto certo che questo incidente di percorso nella trionfale crescita del Movimento 5 stelle ha funzionato da detonatore. Ha rivelato (anche qui!) una concezione proprietaria del partito, da parte di chi ne è stato indubbiamente il fondatore e ne è, altrettanto indubbiamente, il brand e l’icona, il leader e il vessillo. E, poi, una gerarchia interna la cui rigidità dispotica si giova, per confermarsi e rafforzarsi, dell’assenza o del carattere informale di ogni altro organismo di dibattito e di direzione. La partecipazione, ma anche il controllo da parte dei cittadini, nei confronti del partito (5 Stelle, in questo caso) si affidano a meccanismi così generici da risultare decisamente indecifrabili: “una democrazia liquida dove i cittadini possano decidere continuamente” (ancora Favia). A completare ciò, quanto prima si richiamava: l’esaltazione della politica online. Alla crisi drammatica delle forme della rappresentanza e dei partiti, con tutto ciò che ha comportato (chiusura delle sedi locali, esaurirsi del rapporto con il territorio, mancato rinnovamento dei gruppi dirigenti…) si è pensato di rispondere con la politica digitale: e sono stati molti a leggere in essa connotati innovativi, capaci addirittura di rigenerare quella stessa politica. Ma, nel migliore dei casi, quella online è un gracile surrogato della politica classica. E la politica, ieri come oggi e  – credo – come domani, si fonda sul legame sociale. E questo nasce dalla relazione diretta tra le persone, dagli scambi e dai rapporti, da sentimenti comuni e passioni condivise. Tutto ciò può, certo, circolare nella rete ma rischia costantemente la sterilità o la futilità se lì resta. È vero: oggi non c’è tempo per andare in sezione e la sezione può risultare ostile o perlomeno sgradevole (o chiusa da tempo). Ma centomila click sul web, sotto una petizione o per un obiettivo comune, contro un bersaglio o per una buona causa, sono centomila click. Esercizio gratificante finchè non diventa frustrazione, politica liofilizzata e immateriale che non contribuisce all’autodeterminazione; azione che si vorrebbe condivisa e pubblica e che si affida a tante solitudini e a tante postazioni, tutte collegate tra loro eppure lontanissime. In altre parole, manca totalmente, in questa che si definisce politica, il corpo degli individui e il corpo sociale dell’azione collettiva. E quando manca il corpo, è fatale che manchi il cuore.
12 settembre 2012 il Messaggero
Luigi Manconi
“Cinque anni di una vita annullata per costruire un sogno”: così Giovanni Favia, consigliere regionale di 5 Stelle, racconta la crisi della sua esperienza politica a Lilli Gruber, due sere fa, nel corso di Otto e mezzo (La 7).
La frase è estremamente eloquente, e ancora più lo è  la sua tonalità emotiva. Ma c’è in quelle parole un’enfasi solenne e un po’ eroicistica, che risulta la prova provata di un gigantesco equivoco. È come se quel consigliere regionale, così simpatico e gradevole, pensasse molto seriamente di essere il primo, o uno dei pochissimi, ad aver conosciuto le fatiche e i sacrifici che la militanza politica comporta. Qui emerge un nodo cruciale: 5 Stelle e altri recenti movimenti si comportano come se la politica – quella autentica e “in carne e ossa” – iniziasse con loro. E che, in ogni caso, il fatto di dedicarvisi fosse già esso un evento enormemente innovativo, tanto più perché disinteressato e generoso. Le cose non stanno proprio così. Anche adesso, nel momento in cui la politica conosce il massimo discredito, i partiti patiscono la più cocente disaffezione e la partecipazione sembra ridursi al minimo, anche adesso la militanza politica sopravvive: conosce mille sconfitte ma anche qualche vittoria, arretra e tuttavia conserva una certa vitalità. Tra i radicali, sicuramente, e con inalterata passione e lena, ma anche in alcune aree del Pd e di Sinistra Ecologia e Libertà, in segmenti della destra (persino in quelli confluiti nel Pdl) e qui e là, a macchia di leopardo. E mi riferisco alla politica intesa in senso classico: quella basata sulla prossimità. Ovvero sulla possibilità di incontrarsi nello stesso luogo, per comunicare direttamente e faccia a faccia, per confrontare opinioni e battersi per il prevalere dell’una sull’altra, per mettere insieme le forze e perseguire un obiettivo. Insomma, per mobilitare, aggregare persone, incoraggiare gli incerti, persuadere i critici, galvanizzare i già convinti. Ciò si fa sempre meno, certamente, ma lo si continua a fare: in circoli e sezioni, in luoghi di lavoro, nel corso di comizi e di manifestazioni. E a produrre tutto ciò sono, appunto, i militanti politici. E una certa quota tra coloro che  rivestono ruoli pubblici. Lo stesso Favia ha rivendicato il fatto che  - e anche in questo sembrava fosse l’unico al mondo – trattenga per sé solo 2700 euro dei 9000 dell’indennità percepita dai consiglieri regionali dell’Emilia Romagna. Si tratta di una scelta meritoria ma va ricordato che non solo il Pci e il Psi ma anche la Dc e altri ancora, e alcune forze politiche della seconda repubblica prevedevano che una quota degli emolumenti di parlamentari e consiglieri fosse destinata al rispettivo partito. E per alcuni, la regola vale tuttora. Non c’è dubbio, tuttavia, che quella forma tradizionale della politica e quella forma tradizionale del partito attraversino oggi, una crisi profonda, come mai nella storia dell’Italia repubblicana. Ed è proprio per questo che il “caso Favia” costituisce un segnale estremamente significativo. a) perché rappresenta un ulteriore fattore di disgregazione della rappresentanza, anche nelle sue più recenti espressioni; b) perché certifica l’omologarsi della sedicente “nuova politica” a quella tradizionale; c) perchè, infine, offre la prova inconfutabile della inadeguatezza dei nuovi strumenti di partecipazione (quelli online). Va da sé: la vicenda del consigliere regionale è, in primo luogo, l’effetto inevitabile, e fisiologico, di una crescita così rapida e, in qualche caso travolgente, del movimento promosso da Beppe Grillo. Insomma, come quegli adolescenti che, da una stagione all’altra (o da un giorno all’altro), si sviluppano in maniera sorprendente: crescita abnorme degli arti  ed esplosione dell’acne. Ma le dinamiche e i linguaggi che questa crisi di 5 Stelle fa emergere sono davvero interessanti: come si diceva, riproducono mimeticamente tutto, ma proprio tutto, l’apparato culturale e politico dei conflitti interni ai partiti tradizionali. Ovvero la doppia verità (quella che si dice in pubblico e quella dei colloqui riservati); i riti della condanna e dell’isolamento e, specularmente, quelli dell’autocritica, della riparazione e dell’espiazione; le accuse di slealtà e di “intelligenza col nemico” (il Pd, in questo caso) e le ricostruzioni tanto minuziose quanto sgangherate di congiure e complotti. E, ancora,infiltrati e sicari, oscuri disegni e parentele imbarazzanti, sabotaggi e tradimenti. A chi giova e cui prodest. E così, all’istante, sulla discussione interna a 5 Stelle, sui messaggi e sui post, sui forum e sulle mailing list, si abbatte il clima tetro, che sempre domina la politica, quando il confronto si fa scontro senza quartiere. Tutto ciò che prima era arioso e fresco, come le “nuove forme di democrazia e partecipazione”, diventa cupo quanto l’atmosfera dell’hotel Lux di via Gorki a Mosca, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Certo che esagero, lo so bene. Ma è altrettanto certo che questo incidente di percorso nella trionfale crescita del Movimento 5 stelle ha funzionato da detonatore. Ha rivelato (anche qui!) una concezione proprietaria del partito, da parte di chi ne è stato indubbiamente il fondatore e ne è, altrettanto indubbiamente, il brand e l’icona, il leader e il vessillo. E, poi, una gerarchia interna la cui rigidità dispotica si giova, per confermarsi e rafforzarsi, dell’assenza o del carattere informale di ogni altro organismo di dibattito e di direzione. La partecipazione, ma anche il controllo da parte dei cittadini, nei confronti del partito (5 Stelle, in questo caso) si affidano a meccanismi così generici da risultare decisamente indecifrabili: “una democrazia liquida dove i cittadini possano decidere continuamente” (ancora Favia). A completare ciò, quanto prima si richiamava: l’esaltazione della politica online. Alla crisi drammatica delle forme della rappresentanza e dei partiti, con tutto ciò che ha comportato (chiusura delle sedi locali, esaurirsi del rapporto con il territorio, mancato rinnovamento dei gruppi dirigenti…) si è pensato di rispondere con la politica digitale: e sono stati molti a leggere in essa connotati innovativi, capaci addirittura di rigenerare quella stessa politica. Ma, nel migliore dei casi, quella online è un gracile surrogato della politica classica. E la politica, ieri come oggi e  – credo – come domani, si fonda sul legame sociale. E questo nasce dalla relazione diretta tra le persone, dagli scambi e dai rapporti, da sentimenti comuni e passioni condivise. Tutto ciò può, certo, circolare nella rete ma rischia costantemente la sterilità o la futilità se lì resta. È vero: oggi non c’è tempo per andare in sezione e la sezione può risultare ostile o perlomeno sgradevole (o chiusa da tempo). Ma centomila click sul web, sotto una petizione o per un obiettivo comune, contro un bersaglio o per una buona causa, sono centomila click. Esercizio gratificante finchè non diventa frustrazione, politica liofilizzata e immateriale che non contribuisce all’autodeterminazione; azione che si vorrebbe condivisa e pubblica e che si affida a tante solitudini e a tante postazioni, tutte collegate tra loro eppure lontanissime. In altre parole, manca totalmente, in questa che si definisce politica, il corpo degli individui e il corpo sociale dell’azione collettiva. E quando manca il corpo, è fatale che manchi il cuore.
12 settembre 2012 il Messaggero
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