Quando hanno aperto la cella
Rosy Bindi
Ho letto d'un fiato,  e con grande emozione, questo importate libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone.  
A cominciare dal titolo, tratto da quella struggente ballata di De André che nella nostra adolescenza ci introdusse di colpo -  e quasi a tradimento, attraverso la musica – alla condizione annichilente del carcere, ogni pagina del libro, ogni ritratto umano, ogni racconto di morte dovuta a incuria, indifferenza o prepotenza all'interno di istituzioni chiuse, scuotono la nostra coscienza di cittadini e interrogano con urgenza la politica.

Sono quindi tanto più dispiaciuta di non poter essere qui a parlarne compiutamente e ad ascoltare testimonianze ed opinioni.  Vorrei però almeno comunicarvi alcuni pensieri che mi sono stati sollecitati da questa preziosa lettura.
Prima di tutto, sono rimasta colpita dalla testimonianza meticolosa di episodi terribili che sono passati quasi inosservati attraverso la macchina dell'informazione, prova evidente – come notano gli autori –  di una rimozione di massa della situazione carceraria e di altri ambienti di esclusione sociale. Un catalogo che racconta di donne e uomini abbandonati, vilipesi, calpestati fino alla morte proprio in quegli ambienti e da quelle persone che hanno il compito di prendersene carico, nelle carceri, negli ospedali psichiatrici o nelle caserme. Ma è un catalogo che ha anche il merito  di non alzare un grido generico contro le istituzioni o le forze dell'ordine, ma di ricercare semplicemente la verità, indagando nei rapporti di dominio e di potere che, in mancanza di regole certe e di concreta vigilanza, possono sconfinare nelle irregolarità e nell'abuso del più forte nei confronti dell'indifeso.
Sono descrizioni letterariamente forti negli accenti e impressionanti nelle immagini. Dico immagini anche se nel libro non c'è una sola fotografia, ma è come se ce ne fossero cento. Perché la scelta di descrivere fino al dettaglio più sgradevole le fotografie che danno testimonianza delle violenze o dell'abbandono ha un impatto fortissimo, e si pone come la più eclatante delle prove.   
E' andata così per Stefano Cucchi, grazie alla forza e alle scelte coraggiose della sua famiglia. E' adesso così,  grazie alle scelte e al lavoro di Manconi e Calderone, anche per Nanni De Angelis terrorista di destra, Katiuscia Favero ladra di un orologio,  Eyasu Habteab contrabbandiere di immigrati, Giuseppe Uva, Marco Ciuffreda, Francesco Mastrogiovanni e molti altri.  Queste persone fragili e spesso colpevoli, condannati o in attesa di giudizio per fatti gravi o per furtarelli, a volte mentalmente confuse, non sono facili da dimenticare. Il corpo martoriato e esposto, a partire da quello del Cristo, è la più potente delle denunce. E il corpo di questi morti, trasmesso così crudamente agli occhi della mente da queste pagine, ci costringe a vedere le cose nella loro dura realtà.
Una realtà che ci chiama soprattutto a misurare il livello della nostra civiltà.  La presa in carico della devianza e della fragilità, la funzione della pena e la rieducazione, l'intangibilità fisica e psichica delle persone sono infatti uno degli indici del funzionamento di una comunità, prima della politica, al di qua della politica che può cambiarne o aggiornare le regole.
Nella  storia nazionale è soltanto con la Repubblica, che la rieducazione diventa principio costituzionale. L'idea rieducativa deve guidare il giudice e la pena detentiva va organizzata in modo tale da non rappresentare un castigo maggiore di quello che già si realizza nella privazione della libertà. Il recupero e il reinserimento sociale del condannato è un compito inscindibile della sanzione penale.  Ma a più di sessant'anni di distanza possiamo dire di aver rispettato quel principio?
Da strumento di controllo e di recupero il carcere è diventato sempre di più il luogo della pura reclusione. E nella segregazione senza scampo diventano più facili spazi di impunità e di sopruso, denunciati anche dal numero impressionante di suicidi degli ultimi anni. In istituti  sempre più sovraffollati, dove sono spesso  azzerati  i livelli minimi di dignità umana, questi continui suicidi - quasi tutti di giovani reclusi, in gran parte extracomunitari -  sono insostenibili per una democrazia.    
Nella sua intensa introduzione Gustavo Zagrebelsky cita Pietro Calamandrei e l'impegno della classe dirigente del dopoguerra, che aveva conosciuto di persona il carcere fascista, a umanizzare il sistema penitenziario. Quell'impegno è in gran parte fallito e sono restate inascoltate altre denunce e altre voci. Permettetemi di ricordare quella di  Giovanni Paolo II, terzo papa ad entrare in un carcere dopo dopo Giovanni XXIII e Paolo VI, che invocando un amnistia o almeno un indulto per la popolazione carceraria così si esprimeva a proposito della detenzione:
“La pena non può' ridursi ad una semplice dinamica retributiva, tanto meno può configurarsi come una ritorsione sociale o una sorta di vendetta istituzionale. La pena, la prigione hanno senso se, mentre affermano le esigenze della giustizia e scoraggiano il crimine, servono al rinnovamento dell'uomo, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, per reinserirsi a pieno titolo nella società”.   
Era il 2000, l'anno del Giubileo, e l'indulto fu  varato dal governo di centrosinistra 6 anni dopo, tra infinite polemiche per lo più strumentali.
Questo libro ci ricorda che ancora oggi nulla è cambiato. Anzi, nell'assenza di una politica riformatrice e in una situazione di perenne emergenza, possono aumentare spazi dove il diritto è bandito e il sopruso vince sul rispetto della persona, minando le fondamenta stesse del patto di cittadinanza.
Chi leggerà questo libro e – come me – conosce bene Luigi Manconi, uno dei suoi autori,.  non potrà che convenire che ci voleva la passione politica e l'abnegazione umana di Luigi, la sua costante attenzione ai temi  dell'esclusione e dell'emarginazione, per realizzare un lavoro di questo impatto emotivo e di questa rilevanza politica.
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