Buona Morte
Luigi Manconi
Il fatto: in Inghilterra, il procuratore generale del regno, Keir Starmer, indicando i criteri per decidere se perseguire o prosciogliere chi attivamente aiuti a morire  un paziente, ha affermato che non dovrà essere punito chi agisca per “motivi di compassione”, e non per interesse personale o per sentimenti di ostilità. Quella disposizione ha suscitato la riprovazione di Avvenire. Francesco Ognibene ha scritto un articolo intelligente, che merita di essere discusso con rispetto da chi, come me, la pensa esattamente all’opposto.
C’è un passaggio da cui è utile partire: “lo slancio del samaritano è snaturato nella sua tragica caricatura: la mano che per secoli si è posata con amore sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per compassione.” Attenzione: quella del samaritano non è solo un’immagine suggestiva – come direbbe un cinico (e non nel senso filosofico della parola) – ma è anche l’evocazione di una delle grandi architravi dell’organizzazione sociale. La mano che “con amore” si posa “sulla ferita” esprime, certo, un sentimento dell’anima, un motto filantropico, una pulsione emotiva, la cui radice profonda può rinvenirsi in una convinzione religiosa o in una tensione morale o in un sentire comunitario. Ma il gesto di quella mano coincide con una domanda sociale e con un interesse collettivo. Insomma, con un bene pubblico. La società è tale, infatti, perché si fonda su un sistema di reciprocità e di obbligazioni vicendevoli, così da rendere l’uno responsabile verso l’altro (è ciò che chiamiamo legame sociale). In estrema sintesi: all’interno di una comunità, la debolezza dell’uno finisce col pesare negativamente sulla sicurezza dell’altro.  È una verità elementare che l’ideologia dominante tende a oscurare: ciò che definiamo solidarietà e filantropia rimandano sì a valori (di derivazione religiosa o laica), ma giocano un ruolo determinante di coesione e di integrazione sociale. (Sia chiaro: quando non vanno a detrimento del riconoscimento di garanzie e diritti, giuridicamente tutelati). Nessuno, quindi, può disconoscere l’importanza di quella “mano” che si posa “sulla ferita”: tantomeno la si vuole trasformare in una “tragica caricatura” che “procura la morte”. Quasi che “la malattia senza speranza, la solitudine, la vecchiaia estrema, la demenza” richiedano tutte, sempre e comunque, di essere fatte “cessare” attraverso l’atto eutanasico. Ma quando mai? Ma perché introdurre, in una discussione così delicata scenari da incubo che – se ne convinca Ognibene – fanno orrore ai cattolici apostolici romani e a tanti altri, che pure non sono cattolici apostolici romani? Sia detto con chiarezza: l’eutanasia può essere presa in considerazione in situazioni estreme, quando ogni altra ipotesi si riveli irrealizzabile, a condizioni rigorose e tassative, in presenza di una richiesta inequivocabile, documentata e revocabile. E riguarda un’esiguissima minoranza.
Opportunamente Ognibene insiste sulla manipolazione della “percezione pubblica” in materia di vita e di morte, ma poi finisce col ricorre agli stessi metodi di alterazione semantica che condanna. E, infatti, la definzione giuridica di “suicidio assistito”, è tutt’altro che dubbia e non ha nulla a che vedere con la soppressione di un “demente”, o di chi si trovi in condizione di “solitudine” o di “estrema vecchiaia”, contrariamente a quanto scrive  Ognibene.
Nel merito, penso poi che la mano del samaritano sia quella di chi accompagna il malato alla grotta di Lourdes e anche quella – non scandalizzatevi -  dell’operatore di strada che indica alla prostituta straniera come sottrarsi al mercato schiavistico del sesso o che dà la siringa non infetta all’eroinomane cronico. Al di là delle diverse competenze e finalità, la motivazione profonda di quei tre gesti – non è un  paradosso – può essere la medesima: la com-passione. Ad avvicinare quei tre gesti, inoltre,  è il fatto che tutti accompagnino un’opportunità di vita e di speranza. Ma quando quell’opportunità si scontra con un ostacolo insormontabile, come può essere un dolore non lenibile, è la medesima compassione che può portare – su richiesta di chi soffre – a decidere di porre fine alla stessa vita. Davvero non c’è nulla di improprio nel ricorrere a quel termine, compassione, e a quell’altro, amore, in casi del genere.
Il fatto che, invece, sembri scandalosamente improprio a una parte dei cattolici viene confermato  autorevolmente dal Pontefice, che di recente ha criticato il “pietismo”. La questione è di grande spessore, anche teologico (ma su questo doverosamente mi astengo). Credo che il punto controverso  sia il seguente: pietà e compassione vengono lette, per esempio da chi scrive, come virtù umane, addirittura fondative della stessa identità della persona e calate nella sua storia: soggette, pertanto, alle vicissitudini e ai travagli dell’esperienza, delle sue sofferenze e delle sue paure. Virtù umane che si misurano con il limite e con la debolezza, con la crisi e con la caduta, soccorrendo quando è possibile soccorrere, soccombendo quando è inevitabile soccombere.
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