Politicamente correttissimo
Per carità
Il bellissimo film di Olmi e due equivoci da evitare: accoglienza e carità non sono subordinabili
Luigi Manconi
Il film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, è bellissimo. Sul Foglio del 12 ottobre, Giuliano Ferrara ne dà una singolare interpretazione, dove si intrecciano una critica sottilmente politica e una critica sottilmente pastorale (ebbene si). Innanzitutto c’è un giudizio sullo stesso Olmi “buon uomo di spiritualità cristiana per me ingiudicabile”. Qui c’è già un infortunio di senso: nel linguaggio devozionale e nella letteratura cristiana “buon uomo” definisce, con significato esclusivamente positivo, la persona di fede; nel linguaggio profano, quella formula ha tutt’altro suono, e rivela qualcosa di simile alla degnazione. Ma  la vera questione è un’altra: Ferrara lo legge come un film sull’accoglienza (nei confronti degli stranieri) e arriva a darne quindi una interpretazione politicistica, che lo vede ovviamente critico perché –altrettanto ovviamente- non può condividerla per ragioni specularmente politicistiche. Insomma, a un Ermanno Olmi dipinto come un militante di S.O.S. Racisme, Ferrara si trova costretto a contrapporsi come un militante della politica dei respingimenti. Ma via! “Ci sono più cose in cielo e in terra” di quante  arrivi a scorgerne Roberto Maroni. E anche per commisurare la dimensione dell’accoglienza ai vincoli della politica, della demografia e dell’economia, è necessario partire dalle categorie fondamentali. Ferrara, citando Giovanni Bazoli, pretende invece di “mitigare” quell’ accoglienza, (subordinandola ad altri criteri e ad altri limiti), dal momento che l’accoglienza discende da una carità che appartiene alla medesima “filiera di virtù” che comprende fede e speranza. Qui emerge, a mio avviso, il primo equivoco. Quasi che quella “ filiera di virtù debba funzionare come una sorta di calmiere: e quasi che, pertanto, la fede e la speranza, siano chiamate a “contenere” (ridurre) la carità (l’accoglienza). Ecco, mi sembra una concezione contabile e avara delle virtù teologali, che rischia di negare la loro, come dire, potenza e la loro capacità di liberazione. Per il cristiano, va da sé, l’accoglienza è un assoluto. In caso contrario, non si chiamerebbe accoglienza e non discenderebbe dalla carità. Questo non significa, ovviamente, che il cristiano non debba tener conto della politica, della demografia e dell’economia; significa, piuttosto, che è chiamato a valutare la bontà della propria politica commisurandola a quanto essa si discosti da quell’assoluto, consapevole che quella distanza è comunque uno scandalo e che è dovere morale ridurla. Il film di Olmi ricorda tutto questo e può essere letto, da chi lo voglia,  come un’opera politicamente radicale, solo ed esclusivamente perché è un’opera spiritualmente radicale. Ma un secondo equivoco è quello suscitato dalle parole del vecchio parroco: “ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede”. L’affermazione, presa alla lettera, è stata interpretata da molti come una svalutazione della fede e una sua subordinazione alla carità (fino a quella “sociologizzazione” della Rivelazione imputata a un certo cattolicesimo di sinistra). Quasi con dolore, Marina Corradi, che pure ha sull’immigrazione una posizione non dissimile da quella di Olmi, ha scritto su Avvenire: “Non ci si fa prete per far del bene ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più”. Mi sembra una interpretazione impropria, e forse  ingenerosa. Certo chi scrive non ha competenze teologiche, ma qui il confronto non è tra Dottori della Chiesa, e dunque si può osare. Senza dover rammentare a critici certamente avvertiti che “sola fide” costituiva uno dei cinque punti essenziali del pensiero teologico della Riforma protestante, si può forse ricordare come la carità rappresenti l’alfa e l’omega della storia della salvezza. E l’Agape - il banchetto comunitario come forma concreta dell’amore fraterno -  è per Piero Coda il compendio dell’intero mistero cristiano. Dunque il bene di cui parla il prete del film è, se mi è consentito “interpretare Olmi”, l’amare. Quell’amare che Sant’Agostino così coniuga: Ama  e fa ciò che vuoi.
Ma –attenzione- Ferrara ha realizzato quella che, nella nobile arte della scherma si chiama “finta di cavazione”: si simula un movimento per indurre una parata e, poi, portare l’attacco verso un altro bersaglio. Così Ferrara solleva un quesito sull’immigrazione perché vuol parlare in realtà di una mancata accoglienza che ritiene assai più scandalosa: quella nei confronti di coloro “che vogliono semplicemente vivere ed essere accuditi come prodotto dell’amore”. È il tema dell’aborto. Se ne riparlerà in questa rubrica, ma intanto noto che Ferrara si chiede se la questione della natalità non sia “forse altrettanto se non più preoccupante” della questione dell’accoglienza dei migranti. Ma perché “più” quando sarebbe stato sufficiente “altrettanto”? Perché questo è il punto: se si tratta di imperativi morali e di categorie assolute, indicare una priorità -come fa il direttore del Foglio- risponde solo a una valutazione politica. Infine c’è un sublime paradosso che sfugge a Ferrara: nel film di Olmi, all’interno di quella chiesa sconsacrata e afflitta, una immigrata “clandestina” da alla luce un figlio. Diavolo d’ un Olmi.
Il Foglio 18 ottobre 2011
Politicamente correttissimo
Per carità
Il bellissimo film di Olmi e due equivoci da evitare: accoglienza e carità non sono subordinabili
Luigi Manconi
Il film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, è bellissimo. Sul Foglio del 12 ottobre, Giuliano Ferrara ne dà una singolare interpretazione, dove si intrecciano una critica sottilmente politica e una critica sottilmente pastorale (ebbene si). Innanzitutto c’è un giudizio sullo stesso Olmi “buon uomo di spiritualità cristiana per me ingiudicabile”. Qui c’è già un infortunio di senso: nel linguaggio devozionale e nella letteratura cristiana “buon uomo” definisce, con significato esclusivamente positivo, la persona di fede; nel linguaggio profano, quella formula ha tutt’altro suono, e rivela qualcosa di simile alla degnazione.
Ma  la vera questione è un’altra: Ferrara lo legge come un film sull’accoglienza (nei confronti degli stranieri) e arriva a darne quindi una interpretazione politicistica, che lo vede ovviamente critico perché –altrettanto ovviamente- non può condividerla per ragioni specularmente politicistiche. Insomma, a un Ermanno Olmi dipinto come un militante di S.O.S. Racisme, Ferrara si trova costretto a contrapporsi come un militante della politica dei respingimenti. Ma via! “Ci sono più cose in cielo e in terra” di quante  arrivi a scorgerne Roberto Maroni. E anche per commisurare la dimensione dell’accoglienza ai vincoli della politica, della demografia e dell’economia, è necessario partire dalle categorie fondamentali. Ferrara, citando Giovanni Bazoli, pretende invece di “mitigare” quell’ accoglienza, (subordinandola ad altri criteri e ad altri limiti), dal momento che l’accoglienza discende da una carità che appartiene alla medesima “filiera di virtù” che comprende fede e speranza. Qui emerge, a mio avviso, il primo equivoco. Quasi che quella “ filiera di virtù debba funzionare come una sorta di calmiere: e quasi che, pertanto, la fede e la speranza, siano chiamate a “contenere” (ridurre) la carità (l’accoglienza). Ecco, mi sembra una concezione contabile e avara delle virtù teologali, che rischia di negare la loro, come dire, potenza e la loro capacità di liberazione. Per il cristiano, va da sé, l’accoglienza è un assoluto. In caso contrario, non si chiamerebbe accoglienza e non discenderebbe dalla carità. Questo non significa, ovviamente, che il cristiano non debba tener conto della politica, della demografia e dell’economia; significa, piuttosto, che è chiamato a valutare la bontà della propria politica commisurandola a quanto essa si discosti da quell’assoluto, consapevole che quella distanza è comunque uno scandalo e che è dovere morale ridurla. Il film di Olmi ricorda tutto questo e può essere letto, da chi lo voglia,  come un’opera politicamente radicale, solo ed esclusivamente perché è un’opera spiritualmente radicale. Ma un secondo equivoco è quello suscitato dalle parole del vecchio parroco: “ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede”. L’affermazione, presa alla lettera, è stata interpretata da molti come una svalutazione della fede e una sua subordinazione alla carità (fino a quella “sociologizzazione” della Rivelazione imputata a un certo cattolicesimo di sinistra). Quasi con dolore, Marina Corradi, che pure ha sull’immigrazione una posizione non dissimile da quella di Olmi, ha scritto su Avvenire: “Non ci si fa prete per far del bene ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più”. Mi sembra una interpretazione impropria, e forse  ingenerosa. Certo chi scrive non ha competenze teologiche, ma qui il confronto non è tra Dottori della Chiesa, e dunque si può osare. Senza dover rammentare a critici certamente avvertiti che “sola fide” costituiva uno dei cinque punti essenziali del pensiero teologico della Riforma protestante, si può forse ricordare come la carità rappresenti l’alfa e l’omega della storia della salvezza. E l’Agape - il banchetto comunitario come forma concreta dell’amore fraterno -  è per Piero Coda il compendio dell’intero mistero cristiano. Dunque il bene di cui parla il prete del film è, se mi è consentito “interpretare Olmi”, l’amare. Quell’amare che Sant’Agostino così coniuga: Ama  e fa ciò che vuoi.
Ma –attenzione- Ferrara ha realizzato quella che, nella nobile arte della scherma si chiama “finta di cavazione”: si simula un movimento per indurre una parata e, poi, portare l’attacco verso un altro bersaglio. Così Ferrara solleva un quesito sull’immigrazione perché vuol parlare in realtà di una mancata accoglienza che ritiene assai più scandalosa: quella nei confronti di coloro “che vogliono semplicemente vivere ed essere accuditi come prodotto dell’amore”. È il tema dell’aborto. Se ne riparlerà in questa rubrica, ma intanto noto che Ferrara si chiede se la questione della natalità non sia “forse altrettanto se non più preoccupante” della questione dell’accoglienza dei migranti. Ma perché “più” quando sarebbe stato sufficiente “altrettanto”? Perché questo è il punto: se si tratta di imperativi morali e di categorie assolute, indicare una priorità -come fa il direttore del Foglio- risponde solo a una valutazione politica. Infine c’è un sublime paradosso che sfugge a Ferrara: nel film di Olmi, all’interno di quella chiesa sconsacrata e afflitta, una immigrata “clandestina” da alla luce un figlio. Diavolo d’ un Olmi.
Il Foglio 18 ottobre 2011

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