Travaglio o Saviano
Il moralismo conventicolare del mozzorecchi produce cattiva scrittura, altro che “Gomorra”
Luigi Manconi
Credo di aver capito, infine, perché Roberto Saviano scriva così bene e perché Marco Travaglio scriva così male. Sia chiaro: la scrittura di quest’ultimo ha un enorme successo e, dunque, piace, piace tantissimo. Innanzitutto perché è sommamente corriva, blandisce i più consolidati stereotipi e titilla quel senso comune che (sintetizzo brutalmente Antonio Gramsci) è la negazione del buon senso. Insomma, rassicura e conforta.
In più, quella scrittura ricorre a un umorismo consolatorio, che mai sorprende e inquieta. Il paradigma comico cui si ispira è quello conservatore e “settentrionale”, di un Gino Bramieri, cui sia capitato di leggere il Candido degli anni ’70 diretto da Giorgio Pisanò, intrecciando la giocondità piccolo borghese all’invettiva strozzata. (Ma Pisanò aveva anche colpi di genio e, a proposito di un capo socialista, titolava: “Si scrive leader, si legge lader”). Nulla della sregolatezza anarcoide di un Walter Chiari: qui siamo nello spazio linguistico di un cinismo faceto, forse efficacissimo, eppure dannatamente conventicolare. Qui, soprattutto, non c’è mai il dramma, mai la durezza della contraddizione radicale e l’asprezza del dilemma etico. C’è al più l’esercizio petulante della criticuccia, l’elenco acido dei vizi altrui, il livore che si soddisfa nel cogliere qualcuno in fallo, tanto più se quel qualcuno sia (sia stato) affine e sodale. Non a caso lo sdegno si concentra pressoché interamente sulla corruzione, piccola media grande (significativo quel titolo del Fatto: “un Paese di ladri”) e non sull’ingiustizia; e si focalizza su intrighi, trame e macchinazioni e non sulle sofferenze reali e sulle diseguaglianze materiali e sociali: la precarietà e la privazione della libertà; e i cassintegrati e i detenuti, i profughi e gli internati, i tossicomani e i malati di mente. Nulla di tutto ciò nelle prosa giustizialista: prevale una polemica infraborghese e, si potrebbe dire, di regime. È come se fossimo in una brillante commedia inglese, prima che John Osborne irrompesse sulla scena. O, piuttosto, siamo nel rutilante musical degli Immoralisti, dove non c’è traccia dell’intensità tragica del personaggio di André Gide, ma solo la futilità spassosa del gossip che si vorrebbe controinformazione e che si traveste da intransigenza. Ma il tutto rimane all’altezza del buco della serratura, anche quando al di là della porta c’è uno scenario pubblico, la sfera politica, lo Stato. Ecco il punto: anche quando il discorso riguarda i beni collettivi, quello sguardo inquisitore sembra passare sempre attraverso uno spioncino. Sembra sempre furtivo e rubato, ringhioso e rapace: sempre espressione di rivalsa sociale e di frustrazione livorosa. Qualcosa che può comprendersi – eccome – e giustificarsi se, a manifestarlo sono gli espropriati di tutto, motivati a pretendere un risarcimento. Ma, se a esprimere quella forma piccina di revanscismo sono intellettuali che dispongono di tutte le risorse, beh, c’è da porsi qualche interrogativo. E c’è da chiedersi quale sia, appunto, la fondazione morale di quella indignazione. Una indignazione che si mostra priva di qualunque capacità di autoriflessione e che si rivela essere niente più che una mondana irritazione e una capricciosa insofferenza. Ecco, una scrittura che discende, come quella dei travaglisti–leninisti, da una cronica acidità di stomaco, risulta fatalmente brutta: e proprio perchè le manca quella forza (quell’anima) che dovrebbe derivare dalla coscienza morale e dalla consapevolezza di quanto sia tragico il conflitto tra bene e male. A leggere la prosa giustizialista, anche quando scintillante, e tanto più quando tetra (come spesso accade), si ha invece la sensazione che “il combattimento tra il Bene e il Male” sia né più né meno che quello tra Antonio Ingroia e Giovanni Conso. La ragione è semplice: in quella prosa, il bene è qualcosa di ontologicamente insediato, riconoscibile e attingibile. Basta sceglierlo, disporsi là, dire ciò che va detto, fare ciò che va fatto. Il bene è un assunto, un principio presupposto e assoluto, un “motore immobile”. Appartiene a un universo fisso e da lì discende come una “rivelazione”, fino a rappresentare la costellazione di uno schieramento e, di conseguenza, di quanti vi appartengono. Così il bene e la morale (quale orientamento allo stesso bene) perdono qualunque accezione conflittuale e qualunque dimensione drammatica per ridursi a una sorta di tessera di un club esclusivo o di password di accesso a uno status. Ed è proprio qui che bene e morale si rovesciano nel loro esatto contrario: nell’immoralità, appunto. Come volete che una simile concezione non produca una brutta scrittura? Sceglietevi l’autore preferito, ricordandovi che Nanni Moretti e Ludwig Wittgenstein hanno detto, con parole appena diverse, che chi pensa male parla (scrive) male. All’opposto di tutto ciò c’è la scrittura di Roberto Saviano. So di trovarmi, sul punto, in partibus infidelium, ma ho avuto occasione di rileggere Gomorra e alcuni articoli sull’Espresso. Che potenza morale, in quelle pagine, e quale cognizione del dolore umano. Non dico che sia quella energia etica a dettare la sua bella scrittura, ma sono convinto che senza quella energia la sua scrittura sarebbe meno bella.
il Foglio 17 luglio 2012
Share/Save/Bookmark
Commenti (2)
  • Nadia Bertolani  - Chi pensa male parla male
    Grazie a Luigi Manconi, eternamente grata e, dopo la lettura, migliore.
    Nadia Bertolani
  • aakash  - Critica
    Non capisci un cazzo di scrittura. Non difendo la scrittura di travaglio, che è serrata e risponde a tempi giornalistici televisivi, ma dire che savbiano scrive bene è solo segno di scarsa domestichezza con la scrittura vera.
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.