Sora nostra Morte
Un film per iniziare a riflettere su un passaggio naturale della vita e sull’autodeterminazione
Luigi Manconi
Non so se il Foglio abbia mai recensito il bellissimo film "Amour", scritto e diretto nel 2012 da Michael Haneke, e interpretato da Jean-Louis Trintignat, Emmanuelle Riva e Isabelle Huppert. Ma, qualora lo avesse fatto, scommetterei che questo sia stato, pressoché alla lettera, il suo giudizio (sostantivi e aggettivi compresi): "Un film politicamente corretto, dove la media borghesia urbana tratta con illuminato buonsenso i valori non negoziabili, sottraendo loro ogni autentica radicalità, con soluzioni tranquillizzanti e ispirate al bon ton morale. Un film levigato, dove la morte perde buona parte della sua tragedia (fatta di sangue e dolore) per diventare una questione intellettuale e una controversia ideologica. Il dramma indicibile e irrisolvibile della morte viene, così, medicalizzato e anestetizzato, ridotto a speculazione intellettuale, se non a moda laicista e secolarizzata". Converrete che, se non è stato giudicato esattamente così (e proprio con queste stesse parole), poco ci è mancato.

Certo, trattare temi cruciali e strazianti come l'amore dei vecchi, le patologie invalidanti, gli stadi terminali e l'eutanasia  attraverso la magnifica e intelligente bellezza senile di Trintignat e Riva, presenta qualche rischio. Innanzitutto, quello di  proporre anche una scelta così traumatica, come quella di una morte condivisa, quasi fosse una sorta di privilegio intellettuale e di prerogativa di classe, beneficio esclusivo di persone eleganti e colte, titolari di buone letture e buone maniere. Eppure, a me, quel film suggerisce un'idea esattamente opposta. L'idea, cioè, che una fine come quella raccontata da Amour non debba essere necessariamente il risultato esclusivo e classista di risorse derivanti dal censo e dalla cultura, bensì l'esito possibile di una condivisione affettiva e di una maturazione delle relazioni sociali. Ovvero lo sviluppo di un atteggiamento collettivo e di un orientamento culturale al quale contribuiscano la discussione pubblica, la pastorale delle Chiese, il dibattito medico-scientifico e quello giuridico, la riflessione dei filosofi, quella degli operatori sanitari e quella di ognuno di noi. Tutto ciò può aiutare una qualche forma di “fraternizzazione” con la morte, non più vissuta come evento solo distruttivo e annichilente, ma come passaggio naturale, non eludibile e non removibile, al quale prepararsi e del quale provare a condividere il dolore. Non è detto che ciò possa accadere e so bene che un simile percorso richiede fatica e sofferenza e l'esito è tutt'altro che scontato. E non penso, sia chiaro, che la morte possa essere “sdrammatizzata” o analgesizzata (banalizzata, in ultima istanza): essa resta sempre e comunque un trauma. Ma si può evitare, forse, che quell’evento si trasformi in una catastrofe di senso e di relazioni. Ciò può avvenire solo attraverso una consapevolezza crescente della propria vocazione (prima ancora che del proprio diritto) all'autodeterminazione. Autodeterminazione che non va intesa come fredda e neutra dichiarazione di autosufficienza e di autonomia dagli altri e dal mondo, destinata fatalmente a diventare solitudine, bensì come scelta tragica da condividere, da comunicare ai propri cari, da sopportare unitamente a loro. Paradossalmente, proprio il ricorso alla "zona grigia", che molti evocano come garanzia perché simili scelte restino nell'ambito della discrezionalità privata, senza venire "statalizzate", rischia di rivelarsi la più fallace. E proprio perché in grado di tutelare solo chi già dispone di notevoli risorse, materiali e immateriali. Agli altri resterebbe solo la scelta tra eutanasia clandestina e sofferenze non lenibili. Per questo guardo con interesse alla legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale, promossa dall’Associazione Luca Coscioni e da Radicali italiani e sostenuta dalle firme di Roberto Saviano, Umberto Veronesi, Marco Bellocchio, Tony Garrani, Vittorio Emiliani, Alberto Abruzzese e tanti altri. La leggo e la sottoscrivo, sia pure con un certo tremore e persino con l'imbarazzo che tutti i tabù determinano: ma è questa, va detto, la più limpida occasione per discutere liberamente – con pietà laica e, quando vi fosse, con sensibilità religiosa - di noi e della nostra finitezza.

28 maggio 2013

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