Diritti e detenzione
Anche la sinistra annaspa nell’autoritarismo penale
Luigi Manconi
Eppure c’è un filo rosso – robusto e tenace – che unisce il 25 aprile della Resistenza partigiana a questo 25 aprile di mobilitazione per l’amnistia, promossa dai Radicali italiani. Sono numerosi gli elementi che motivano una relazione stretta tra la ricorrenza della Liberazione nazionale, intorno a valori di democrazia e giustizia sociale, e una battaglia per uno stato di diritto che sia veramente tale e per la tutela rigorosa delle garanzie individuai.
Non si tratta di una evocazione ideologica o di un artifizio retorico: il rapporto tra i due fatti è davvero profondo. Basti pensare a un importantissimo documento storico, tuttora scarsamente conosciuto. Nel 1949, venne istituita la prima Commissione parlamentare di indagine sulle carceri: ed è difficile dire se colpisca di più il fatto che già allora si avvertisse la necessità di realizzare una simile inchiesta o la constatazione che quella, come le successive, non riuscisse a modificare la drammatica situazione del sistema penitenziario. In quegli stessi mesi venne pubblicato un fascicolo speciale della rivista Il Ponte voluto da Piero Calamandrei e interamente dedicato al tema, che ospitava testimonianze e riflessioni di Carlo Levi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e molti altri. Ovvero il meglio dell’antifascismo e del pensiero democratico e repubblicano, in tutte le sue componenti. Leggere quel fascicolo dà, oggi, una grande emozione. Non solo per la qualità politica e, direi, morale degli interventi, ma anche per lo spessore della riflessione sui temi del diritto e della pena. C’è una ragione per quella acutezza intellettuale ed è talmente nitida da assomigliare a una sorta di rivelazione: quelle persone, l’abiezione del carcere, l’avevano conosciuta sulla propria pelle, e per lunghi, talvolta lunghissimi anni. Scrivevano, cioè, di una sofferenza e di una miseria direttamente patite, mentre discutevano di una riforma seria e razionale dell’amministrazione della giustizia e del sistema penitenziario. Nel merito, quella discussione va studiata e approfondita, partendo – mi sembra un ottimo spunto – da un’affermazione di Vittorio Foa per il quale nessuna pena detentiva avrebbe dovuto superare “i tre, al massimo cinque anni”. Avete capito bene: tre, al massimo cinque anni. Eppure non si trattava di un confronto tra utopisti velleitari e filosofi inconcludenti, bensì tra uomini che avevano combattuto la dittatura e che avevano affrontato rischi enormi. Ma credevano nella politica e nel fatto che essa dovesse fondarsi su principi saldi, tali da segnare una discontinuità radicale col precedente regime e da tracciare un’idea di società rispettosa dei diritti individuali e collettivi. Quella discussione è ancora più preziosa perché avveniva in una fase storica appena successiva a un’aspra guerra civile e che conosceva allora una condizione di crisi economica e disordine sociale. Tre anni prima, il ministro della giustizia Palmiro Togliatti aveva promulgato un’amnistia, che aveva suscitato una diffusissima diffidenza e molte reazioni, in qualche caso violente (è interessante notare che, all’interno del Pci, la maggiore ostilità proveniva dalla componente autoritario-stalinista). E tuttavia, la discussione drammatica che il provvedimento di amnistia determinò non ebbe l’effetto di condizionare quella riflessione sul carcere, proposta dal Ponte. Così che gli interventi di Calamandrei e Pajetta, di Lussu e Salvemini poterono confrontarsi liberamente, senza che i giustizialisti del tempo (ce n’erano, eccome se ce n’erano) li accusassero di essere complici delle Brigate Rosse o di Cosa Nostra (per restare all’epoca: della Volante Rossa o di Salvatore Giuliano). Al di la della suggestione che può suscitare l’associazione mentale ed emotiva tra resistenza e lotta per i diritti delle persone private della libertà, c’è da restare costernati per l’impossibilità di riproporre oggi una simile discussione. Cosa è mai accaduto nella cultura della sinistra per renderla così fiacca e povera quando affronta le questioni del diritto e della pena? Eppure lì, proprio nella elaborazione di un programma per una giustizia giusta, si misura il senso di responsabilità della politica e la sua moralità. Qui non si vuole riproporre, certo,  che nessuna pena detentiva superi “i tre, al massimo cinque anni” ma si vuole sperare almeno che la cultura della sinistra si emancipi dall’autoritarismo penale. Ovvero da una concezione profondamente immorale della giustizia, dove il fine “retributivo” della pena costituisce, in realtà, un surrogato miserevole della vendetta. Insomma, si vorrebbe che il grido roco “in galera” resti appannaggio della comicità scellerata di Giorgio Bracardi, e non si ritrovi nel discorso pubblico del centro sinistra.
L’Unità 26 aprile 2012
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