Esuli in Patria
POliticamente Correttissimo
Ho avuto modo di ascoltare, grazie alla benemerita Radio Radicale gli interventi all’incontro “Più unito il Pdl, più forte l’Italia”, promosso dagli ex appartenenti ad Alleanza Nazionale che hanno preso le distanze da Gianfranco Fini.
Mi hanno colpito due elementi, immediatamente percepibili al primo ascolto in pressoché tutti i discorsi. Innanzitutto, un linguaggio singolarmente povero e sbrindellato, spesso incerto e sdrucito, quasi che i diversi oratori fossero a tal punto pressati da un’urgenza di dire e di dirsi, di definire e di definirsi così incalzante da non consentirgli lucidità: e tanto meno limpidezza di linguaggio. Insomma, parlavano davvero malissimo (più del solito, in ogni caso). Ne risultava una singolare sciatteria grammaticale sintattica concettuale e una sorprendente sprovvedutezza stilistica. Non esagero. L’esito era un linguaggio d’occasione, costruito lì per lì, quasi che - ecco il secondo elemento che si avvertiva - quei militanti e quei dirigenti non avessero un retroterra culturale, una tradizione intellettuale, una storia politico-ideologica alle spalle. Una lingua così legnosa e rude denuncia inevitabilmente un vocabolario che si va riducendo ai minimi termini e un pensiero in via di impoverimento. Dal momento che così non è, non può essere, quella trasandatezza linguistica segnala, probabilmente, qualcos’altro. E una sorta di singolare tic sembra confermarlo in maniera inequivocabile. In tutti gli interventi più autorevoli, compresi quelli degli ospiti (Ignazio La Russa, Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Fabrizio Cicchitto, Sandro Bondi…), si sentiva echeggiare insistentemente la seguente esortazione: “non dobbiamo avere complessi di inferiorità”, in specie nei confronti della cultura “progressista-radicale”. Ma non è forse proprio quella stessa cultura “progressista-radicale” di cui si dichiara quotidianamente la crisi irreversibile e la catastrofe totale?. Ecco, allora, trovare conferma una sensazione frequentemente avvertita: dopo oltre mezzo secolo, gli “esuli in patria”, giunti al governo, sembrano tuttora stupirsene e vivere come una sorte imprevista e in qualche modo temuta questo evento. Il fenomeno è molto interessante: l’atteggiamento di questa componente della destra, tanto più quando ostenta sicumera, rivela una persistente insicurezza: l’aggressività di un Gasparri, ad esempio, segnala come solo nell’ostilità permanente, e livorosa, verso tutto ciò che è definibile di sinistra” questa destra possa trovare uno straccio di identità. E’ una identità evidentemente priva di autonomia perché tutta ed esclusivamente giocata nel rovesciamento (e nel dileggio) dei valori della sinistra più che nella elaborazione di propri e autonomi valori. Il sospetto di ciò produce quel costante riflesso di auto rassicurazione: non dobbiamo avere complessi di inferiorità. In vero, ci sono metodiche analitiche e terapeutiche più efficaci per raggiungere livelli adeguati di autostima e sicurezza di sé.Il problema di fondo è che la destra italiana sembra tuttora incapace di uscire dal proprio stato di minorità culturale. Questo, va da sé, non le impedirà di vincere le competizioni elettorali da ora al 2020 (insomma, non esageriamo), ma certo compromette in profondità l’elaborazione di un progetto autonomo per il governo del Paese. Basti considerare come il centro destra ha reagito alla crisi economico-finanziaria internazionale. Il più fantasmagorico coacervo di ipotesi e strategie delle più diverse scuole economiche, tenute insieme maldestramente dalla coppia binaria ottimismo/pessimismo e da tecniche di mobilitazione dell’opinione pubblica e dei sentimenti collettivi, che oscillano tra il liberismo paternalistico e il dirigismo della “economia sociale di mercato”, tra il modello della NEP (Nuova Politica Economica) e quello del Gratta e vinci. Due repertori entrambi efficaci, ma che richiedono uomini all’altezza. Ma Vladimir Il'i? Ul'janov  Lenin non è più tra noi, e nemmeno Mike Bongiorno.
il Foglio 16 giugno 2010
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