Politicamente correttissimo
All’ultimo sangue
Luigi Manconi
Sergio Romano, sul Corriere della Sera di domenica scorsa, sottopone a critica serrata il metodo d’azione dei radicali e, con esso, la stessa concezione politica che lo ispira. Romano affronta nodi veri e questioni cruciali pur se le risposte che offre mi trovano in disaccordo. In estrema sintesi, Romano si chiede se il modello d’azione dei radicali –in particolare lo sciopero della fame e della sete- sia compatibile con le regole del sistema democratico. Quella forma di lotta, in altre parole, sarebbe uno strumento d’azione accettabile solo nei regimi dispotici e all’interno di una “guerra asimmetrica di liberazione”. Dal momento che non è questa la situazione del nostro paese lo sciopero della fame e della sete costituirebbe un vero e proprio “ricatto”. In primo luogo perché, secondo Romano, viola il fondamento stesso della politica democratica che è, per definizione, “lotta senza spargimento di sangue”: mentre qui –almeno potenzialmente- quello spargimento è messo nel conto (la morte per  sciopero della fame e della sete). E, di fronte a questa minaccia, l’avversario cede –ecco il “ricatto”-  perché “impaurito dalla possibilità di apparire responsabile” del pericolo che corre la vita  di chi digiuna. Si tratta di argomenti intelligenti che non possono essere in alcun modo sottovalutati, che si fondano tuttavia su un assunto dato in genere per scontato, ma che scontato non è. Ovvero che la lotta politica in democrazia sia sempre e  incondizionatamente incruenta. Che, cioè, non solo escluda qualsiasi lesione fisica del corpo dell’avversario, ma anche la messa a repentaglio della propria vita. Non penso che le cose stiano così. Anche nei sistemi democratici la lotta può essere virtualmente “all’ultimo sangue” e la vittoria o la sconfitta possono comportare effetti distruttivi per i contendenti. Insomma, la lotta politica -lo sappiamo- è una forma civilizzata del conflitto bellico, di cui conserva memoria e tratti. Una lotta politica che evita “lo spargimento di sangue”, ma non espunge la minaccia di esso né, tantomeno, i riti simbolici che lo evocano. Quella lotta politica, dunque, non solo mima la guerra, e ne riproduce il linguaggio, ma ne perpetua l’ostilità di fondo, neutralizzandola e “pacificandola”, riducendone la violenza, senza tuttavia riuscire a cancellarne le tracce. D’altra parte, anche la forma più democratica di lotta mai inventata -lo sciopero operaio- può avere come potenziale posta in gioco il successo dei lavoratori o la loro rovina economica (che può essere non così dissimile dalla morte fisica). E lo sciopero può essere praticato in forme moderate  o estreme, ma – finché resta pacifico- non confligge con le regole democratiche, anche quando agita il “ricatto” della propria sconfitta (e che ricatto: miseria e disperazione) nei confronti dell’avversario e dell’opinione pubblica. Dunque, mettere in gioco la propria vita non è esercizio antidemocratico e ricattatorio: è bensì portare all’estremo, ma dentro il perimetro del sistema, i termini profondi del conflitto.  I radicali conoscono bene la drammaticità di quell’azione, consistente proprio in un’attività incessante e faticosa per emancipare la politica dalla violenza: per trasferire, cioè, quel conflitto, potenzialmente cruento, dallo spazio della guerra a quello della democrazia, e renderlo, così, nonviolento. D’altra parte chi attua lo sciopero della fame e della sete (gli operai licenziati o Marco Pannella) ritiene sempre di trovarsi all’interno di una “guerra asimmetrica”, dove il Satyagraha (la forza della verità) sopperisce alla disparità di mezzi e alla penuria di risorse. Certo, si può dissentire dal giudizio che il ricorso a mezzi pacifici estremi  sottintende: ma è evidente che, nel gioco democratico, non tutti i giocatori godono di una piena parità delle posizioni di partenza. Dunque,  chi ritiene che “il gioco sia truccato” sbaglia forse valutazione ma non attenta ai fondamenti del sistema democratico. Pertanto, mettere nel conto la perdita della vita non è “più sanguinario” del negare l’accesso a un diritto o del manipolare l’informazione. Infine, secondo Romano, il partito radicale “si è servito degli handicap fisici di alcuni fra i suoi più tenaci militanti per creare il martire”: “un personaggio estraneo alla logica dei conflitti democratici”. Questa affermazione di Romano, oltre a essere ingiusta, finisce per tradire la contraddizione presente nel suo ragionamento: sia la vicenda di Luca Coscioni che quella di Piergiorgio Welby, cui si allude, confermano come anche nei sistemi democratici possano verificarsi conflitti “per la vita o per la morte”. E, infatti, quella di Coscioni e di Welby è stata una lotta per il diritto all’autodeterminazione: ovvero “per affermare la sovranità su di sé e sul proprio corpo” (John Stuart Mill) attraverso un “combattimento” che ha messo in gioco la propria stessa esistenza. E questo perché la propria stessa esistenza può essere fine e mezzo dell’azione pubblica. Non c’è martirio in questo, ma un senso tragico delle cose.
21.2.2012
Politicamente correttissimo
All’ultimo sangue
Luigi Manconi
Sergio Romano, sul Corriere della Sera di domenica scorsa, sottopone a critica serrata il metodo d’azione dei radicali e, con esso, la stessa concezione politica che lo ispira. Romano affronta nodi veri e questioni cruciali pur se le risposte che offre mi trovano in disaccordo. In estrema sintesi, Romano si chiede se il modello d’azione dei radicali –in particolare lo sciopero della fame e della sete- sia compatibile con le regole del sistema democratico.
Quella forma di lotta, in altre parole, sarebbe uno strumento d’azione accettabile solo nei regimi dispotici e all’interno di una “guerra asimmetrica di liberazione”. Dal momento che non è questa la situazione del nostro paese lo sciopero della fame e della sete costituirebbe un vero e proprio “ricatto”. In primo luogo perché, secondo Romano, viola il fondamento stesso della politica democratica che è, per definizione, “lotta senza spargimento di sangue”: mentre qui –almeno potenzialmente- quello spargimento è messo nel conto (la morte per  sciopero della fame e della sete). E, di fronte a questa minaccia, l’avversario cede –ecco il “ricatto”-  perché “impaurito dalla possibilità di apparire responsabile” del pericolo che corre la vita  di chi digiuna. Si tratta di argomenti intelligenti che non possono essere in alcun modo sottovalutati, che si fondano tuttavia su un assunto dato in genere per scontato, ma che scontato non è. Ovvero che la lotta politica in democrazia sia sempre e  incondizionatamente incruenta. Che, cioè, non solo escluda qualsiasi lesione fisica del corpo dell’avversario, ma anche la messa a repentaglio della propria vita. Non penso che le cose stiano così. Anche nei sistemi democratici la lotta può essere virtualmente “all’ultimo sangue” e la vittoria o la sconfitta possono comportare effetti distruttivi per i contendenti. Insomma, la lotta politica -lo sappiamo- è una forma civilizzata del conflitto bellico, di cui conserva memoria e tratti. Una lotta politica che evita “lo spargimento di sangue”, ma non espunge la minaccia di esso né, tantomeno, i riti simbolici che lo evocano. Quella lotta politica, dunque, non solo mima la guerra, e ne riproduce il linguaggio, ma ne perpetua l’ostilità di fondo, neutralizzandola e “pacificandola”, riducendone la violenza, senza tuttavia riuscire a cancellarne le tracce. D’altra parte, anche la forma più democratica di lotta mai inventata -lo sciopero operaio- può avere come potenziale posta in gioco il successo dei lavoratori o la loro rovina economica (che può essere non così dissimile dalla morte fisica). E lo sciopero può essere praticato in forme moderate  o estreme, ma – finché resta pacifico- non confligge con le regole democratiche, anche quando agita il “ricatto” della propria sconfitta (e che ricatto: miseria e disperazione) nei confronti dell’avversario e dell’opinione pubblica. Dunque, mettere in gioco la propria vita non è esercizio antidemocratico e ricattatorio: è bensì portare all’estremo, ma dentro il perimetro del sistema, i termini profondi del conflitto.  I radicali conoscono bene la drammaticità di quell’azione, consistente proprio in un’attività incessante e faticosa per emancipare la politica dalla violenza: per trasferire, cioè, quel conflitto, potenzialmente cruento, dallo spazio della guerra a quello della democrazia, e renderlo, così, nonviolento. D’altra parte chi attua lo sciopero della fame e della sete (gli operai licenziati o Marco Pannella) ritiene sempre di trovarsi all’interno di una “guerra asimmetrica”, dove il Satyagraha (la forza della verità) sopperisce alla disparità di mezzi e alla penuria di risorse. Certo, si può dissentire dal giudizio che il ricorso a mezzi pacifici estremi  sottintende: ma è evidente che, nel gioco democratico, non tutti i giocatori godono di una piena parità delle posizioni di partenza. Dunque,  chi ritiene che “il gioco sia truccato” sbaglia forse valutazione ma non attenta ai fondamenti del sistema democratico. Pertanto, mettere nel conto la perdita della vita non è “più sanguinario” del negare l’accesso a un diritto o del manipolare l’informazione. Infine, secondo Romano, il partito radicale “si è servito degli handicap fisici di alcuni fra i suoi più tenaci militanti per creare il martire”: “un personaggio estraneo alla logica dei conflitti democratici”. Questa affermazione di Romano, oltre a essere ingiusta, finisce per tradire la contraddizione presente nel suo ragionamento: sia la vicenda di Luca Coscioni che quella di Piergiorgio Welby, cui si allude, confermano come anche nei sistemi democratici possano verificarsi conflitti “per la vita o per la morte”. E, infatti, quella di Coscioni e di Welby è stata una lotta per il diritto all’autodeterminazione: ovvero “per affermare la sovranità su di sé e sul proprio corpo” (John Stuart Mill) attraverso un “combattimento” che ha messo in gioco la propria stessa esistenza. E questo perché la propria stessa esistenza può essere fine e mezzo dell’azione pubblica. Non c’è martirio in questo, ma un senso tragico delle cose.
21.2.2012
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