Lingua democratica

Luigi Manconi
il Foglio 23 luglio 2013
Lo so, lo so che "psichiatrizzare" gli avversari è una sconcia pratica tardo-sovietica. Ma davanti a Roberto Calderoli si fatica a trattenersi. L'uomo è trasparente fino alla forma più perversa di assoluta innocenza. E così i suoi incubi (gli africani, gli omosessuali, e chissà chi altri) non possono che essere interpretati come altrettanti segnali di una profonda insicurezza psicologica. E, forse, di una struttura caratteriale dove, appunto, quegli incubi evocano angosce indicibili e rimossi dolorosi. Non è giusto qui insistere, ma ci vuole ben poco a immaginare che cosa possa nascondersi dietro il richiamo, così ripetuto, ai "culattoni". E tuttavia, ancor prima, ciò che più colpisce nel vice presidente del Senato è, diciamolo, la codardia. Calderoli è un pusillanime congenito.

 Quelle che il Foglio ha chiamato "sparate" sono state numerose e tutte, immancabilmente, seguite da precisazioni, rettifiche, modifiche, correzioni, attenuazioni, spiegazioni, mediazioni, contestualizzazioni...E via così, dandosela bellamente a gambe, in un imbarazzato e imbarazzante strascico di autocritiche reticenti e di reticenze oblique. Sulla genealogia dell’homo calderonianus, le considerazioni più intelligenti si trovano in un articolo di Vittorio Lingiardi (“Noi, razzisti senza saperlo”), pubblicate sul Sole 24 Ore di domenica scorsa. Ma c’è un’ulteriore riflessione da fare. La mia opinione è che il Foglio sia l’autorità culturale e morale cui spetta il compito di restituire a Calderoli - nonostante Calderoli - la sua verità: e con ciò un pezzo, almeno un pezzo, di onore. Tocca al Foglio "raccogliere le bandiere lasciate cadere", con la sua goffa semi-autocritica, dall'esponente leghista. E, allora, perché non fare di quel "Kyenge=orango" un vessillo della lotta al politicamente corretto, alla quale il Foglio, e non certo da solo, si dedica da decenni?

"Kyenge=orango" come parola d'ordine di una guerra di liberazione dal "giogo soffocante" del conformismo di sinistra, che vorrebbe interdire equazioni quali quella sul ministro dell’Integrazione e altre ancora (irregolari=criminali, romeni=stupratori, Rom=ladri). Non si tratta di un paradosso. Il rigurgito calderoniano, a mio avviso, è l'espressione estrema e sgangherata, dissennata e stracciacula - e per questo ipocritamente censurabile da quasi tutti - del trionfo finale della Scorrettezza Politica. Un successone anche del Foglio che, dunque, non può lagnarsene più di tanto, ma al contrario dovrebbe osservarlo, quel rigurgito, con compiaciuta indulgenza. Come, che so, quel padre satanista di un figlio satanista, che - così raccontò in tribunale – al proprio piccino aveva, sì, insegnato riti diabolici, ma non gli aveva detto mica di "uccidere le persone". O come Attila che, dopo aver scatenato la foia degli Unni, non stava lì a menare tanto il torrone se poi quelli (gli Unni) esageravano un po’. Insomma, il problema del peso talvolta insostenibile della parola, e delle sue conseguenze, esiste. E il politicamente corretto non è un birignao sinistrico né una retorica della simulazione. È, piuttosto, una strategia di mediazione culturale, espressione di un percorso di civilizzazione, che aspira a interdire le manifestazioni più dirompenti di aggressività verbale e di violenza semantica. In altre parole, è un sistema volontario di democratizzazione della lingua.

Si tratta di questione delicatissima, che richiede grande equilibrio, perché - evidentemente - quella procedura di mediazione culturale può dare esiti infelici, spesso velleitari, talvolta ridicoli, ma non è, questa, una buona ragione per rinunciarvi e per seguire una procedura perfettamente speculare. Quale quella che così tanto successo ha riscosso negli anni recenti tra gli intellettuali più fichi e i politici più smagati. Tra questi è stato tutto un gareggiare a chi la sparava più grossa, sul piano dell’anticonformismo di maniera e della sconvenienza ideologica. Così che il giudizio "quello sì che è politicamente scorretto" è diventato una benemerenza, mentre era niente più che una scemenza. Era inevitabile pertanto che - se non li avvertivi prima – sulla scia dei sofisticati critici dell'egemonia del luogocomunismo, arrivassero i ruvidi sfasciacarrozze (Borghezio, Calderoli, ma anche numerosi esponenti del Pdl e, magari, quel consigliere comunale di Sel di Cavarzere…). E chi glielo diceva, a questi ultimi, quale fosse il limite preciso, oltre il quale la spregiudicatezza diventava scurrilità puerile, l'anticonformismo precipitava nella più sconfortante banalità del disprezzo e, per  épater le bourgeois, si finiva col considerare un'idea brillantissima quella di mettersi a scorreggiare in pubblico.


 

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