Parole di Mieli
Analisi psicopatologica del Cav. ispirata da uno che se ne intende.  Risultato: ci vorrebbe un amico
Politicamente Correttissimo Il Foglio, 09-11-2010
Luigi Manconi

Nella più recente puntata di  Anno Zero, Paolo Mieli ha detto con semplicità ed efficacia ciò che qui, più volte, si è cercato di argomentare arrabattandoci, non poco. Mieli, con una interpretazione convincente del ruolo di chi “ha a cuore solo le sorti della Repubblica”, ha sviluppato la più callida e corrosiva critica della fase attuale del berlusconismo. Al confronto, gli argomenti, si fa per dire, di Antonio di Pietro apparivano goffi, involuti e, soprattutto, più che mai “politicanti”.
Si noti che Mieli non ha mai accennato al berlusconismo come fenomeno di sistema o come materia politologica, bensì si è limitato a considerarlo nelle sue manifestazioni più evidenti – e direi “gestuali” – e nelle sue ultime espressioni patologiche. Ha fornito, così, una lettura della decadenza berlusconiana che, qui, provo a elaborare come un modello di analisi, traducendo quella lettura in due categorie (la cui responsabilità, s’intende, è solo mia). La prima categoria è quella  della Omologazione ambientale (più sbrigativamente: Dimmi con chi vai…). Così Mieli: “Berlusconi, in questa fiera dei motorini faceva battute su Ruby e c'era questo uomo anziano, forse il capo dei motorini, che rideva e sghignazzava, dicendo: si, mandala qui”. Se non avete visto la scena, cercatela su internet: è irresistibile. Quell’ “uomo anziano”, forse “il capo dei motorini” sembra – chiedo scusa – una specie di byker invecchiato, con una cravatta color salmone dai riverberi arancione (roba da chiamare i carabinieri) che trascorre il suo tempo a bere birra e a giocare a biliardo in un sordido bar di Phoenix. L’apparenza inganna e, certamente, sarà il più geniale imprenditore del mondo (almeno del mondo “dei motorini”), ma davvero “sghignazzava” come nell’afrore di uno spogliatoio maschile. L’altra categoria è quella definibile Second Life (o Riprovace). Così Mieli: “Se ha un amico, un parente, che gli vuole bene, gli devono dire di smetterla con questo genere di cose”. È quanto, come si è detto, questa rubrica ripete da mesi. Palesemente, e da tempo, Silvio Berlusconi è in bilico su quella precaria linea di confine, che capita di sperimentare a tutti noi, tra stabilità e caduta e tra passo fermo e inciampo. È un crinale dove le passioni tendono a diventare compulsive, i trasporti ossessioni e i desideri possono farsi manie. Tutti vorremmo che in quel momento qualcuno ci desse un’opportunità, una seconda chance, per lo meno un buon consiglio. Ma questo esige una precondizione: il riconoscimento di una debolezza e la dichiarazione di una manque. Ma vallo a dire agli apologeti del carisma berlusconiano, che di quel carisma – pure notevole, nonostante i suoi limiti – hanno fatto un celodurismo da ultima raffica di Salò. Eppure, è del tutto evidente che l’unica salvezza per Silvio Berlusconi sarebbe il sottilissimo e malinconico “piacere della sconfitta”, la saggezza del perdente, l’intelligenza dello scacco, da cui - se si vuole - è possibile ripartire. Ma – per tornare alla puntata di Annozero – tutto ciò è evidentemente ben oltre le possibilità di Niccolò Ghedini, il vero sicario di Berlusconi nella misura in cui le sue strategie difensive sono le più maldestre che mai azzeccagarbugli abbia azzeccagarbugliato. Di fronte alla catastrofe di stile e di carattere, di dignità e di tenuta politica (politica, prima che morale) che il “caso Ruby” rivela, Ghedini è riuscito a opporre solo la tesi della “grande umanità del Presidente”. Quella stessa grande umanità sembra essere la risorsa più preziosa che Giuliano Ferrara attribuisce al Premier, finendo con l’inchiodarlo a essa. Ferrara descrive un Berlusconi che riassume in sé il Carattere Nazionale, facendo della sua vita, per un verso un’epopea eroica e romantica e, per altro verso, una metafora del Rinascimento italiano, nelle sue nobili origini boccaccesche. Ma, se l’ “umanità” che vorrebbe evocare Ghedini è quella del “buon padre di famiglia” con un cuore grande così e la saggezza del contadino inurbato, che conosce il peccato e la confessione, la regola e l’eccezione, Ferrara non fa un’operazione troppo diversa. E, sul Foglio di ieri, introduce nel ritratto di Berlusconi un tocco mozartiano, tutto giocato in chiave di leggerezza, grazia giuliva e spensierata, “felicità e equilibrio del piacere”, ma persino un ignorante come me sa che, senza scomodare Søren Kierkegaard, il Don Giovanni di Da Ponte e Mozart non si incarna propriamente nel Guido Nicheli di “Una vacanza bestiale” o, peggio mi sento, in Gabriel Garko e la definizione di “dramma giocoso” non è un ossimoro buttato lì per caso. E’ una classificazione operistica tradizionale che, tuttavia, evoca la complessità dei caratteri psicologici e dell’avventura umana. In altri termini, com’è noto, Don Giovanni è, al fondo, una figura tragica, che insegue, nell’atto della seduzione, un desiderio di vita (o meglio: un’ansia di sopravvivenza). Nella rappresentazione di Ferrara, il Don Giovanni-Berlusconi è, piuttosto, un Ganimede fanciullesco e vitalistico. Perché amputare Berlusconi proprio di quella dimensione drammatica che, infine, lo renderebbe “umano troppo umano”? Ci vorrebbe un amico.
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Commenti (1)
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