Il primato dei diritti

Luigi Manconi

Poco più di una settimana fa sono accaduti alcuni fatti di grande importanza per una istituzione delegata a svolgere un ruolo tra i più delicati e cruciali: la Polizia di Stato. La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza di condanna, a carico di funzionari e altissimi dirigenti di quel corpo per i “fatti di Genova” del 2001. A distanza di meno di 24 ore il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato: “Il G8 di Genova e' una pagina dolorosa per la polizia: Ho visto le immagini di quello che e' successo all'interno della Diaz e non condivido nulla di quell'operazione”.
E l’attuale capo della Polizia, Antonio Manganelli: “è il momento delle scuse ai cittadini che hanno subito danni e anche a quelli che, avendo fiducia nell'istituzione-polizia, l'hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato”. A voler essere pignoli – ma qui la pignoleria corrisponde all’osservanza più rigorosa delle norme dello stato di diritto – la dichiarazione di Manganelli potrebbe essere contestata: quel “qualche comportamento errato” non da conto certamente del gran numero di abusi e di violenze commessi dalle forze dell’ordine nei giorni del G8. Ma qui, in primo luogo, va apprezzata la novità: tanto più eclatante perché in un paese come il nostro, dove i comportamenti illegali di appartenenti alle forze dell’ordine si sono ripetuti costantemente, pressoché mai c’è stato il riconoscimento pubblico dei soprusi commessi. Fu il solo Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro dell’Interno, a trovare la forza morale per affermare – a proposito del trattamento brutale subito da un fermato nei locali della squadra mobile di Palermo - che “un cittadino non può entrare vivo in una questura e uscirne cadavere”. Era il 1985 e casi simili di abusi, ma anche di morti violente, all’interno di strutture statuali erano accaduti e ancora accadranno numerose volte. Ma né prima né dopo quel 1985, i responsabili istituzionali hanno mai saputo trovare le parole giuste. Per questo valgono così tanto quelle pronunciate, una settimana fa da Anna Maria Cancellieri e da Antonio Manganelli. I quali, subito dopo, hanno trovato anche il modo di esprimere la propria solidarietà nei confronti di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il giovane di Ferrara ammazzato nel 2005 da quattro poliziotti, condannati in via definitiva. Va ricordato che il prefetto Manganelli non è nuovo a simili gesti: meno di un anno fa, incontrò riservatamente i genitori di Aldrovandi e, ancor prima, non esitò a riconoscere l’enorme gravità del comportamento di quell’agente della polizia stradale che portò alla morte di Gabriele Sandri.

Tutto ciò annuncia una svolta nel tormentato rapporto tra corpi di polizia e cittadini? E, ancor prima, una autentica riforma culturale all’interno delle forze dell’ordine, della loro mentalità e del loro sistema di valori? È davvero troppo presto per dirlo: e molti segnali vanno nella direzione opposta. Al di là della maggiore sensibilità dei vertici istituzionali, sono gli episodi di strada, l’ordinaria amministrazione nel controllo del territorio, le vicende quotidiane di piccoli e grandi abusi che preoccupano. Qui il discorso si fa complicato perché riguarda, in parallelo, anche l’Arma dei Carabinieri e altre forze, che dipendono da altre autorità politiche; e perché non va dimenticato, neanche per un attimo, in quale quadro di gigantesche difficoltà e di costanti insidie si svolga l’attività di prevenzione e repressione dei reati. Ma tutto ciò può esser dato per presupposto, in quanto incontestabile. E, tuttavia non deve indurre a sottovalutare (anzi!) come quel lavoro così pericoloso e così poco remunerato presenti zone d’ombra, buchi neri, tendenze all’illegalità e alla sopraffazione. Con effetti micidiali e, talvolta, letali. Come i casi di Vittorino Morneghini (Milano, maggio 2012) e quello di Cristian De Cupis (Roma, Novembre 2011); quello di Michele Ferrulli (Milano, luglio 2011); quello di Filippo Narducci (Cesena, aprile 2010); quello di Stefano Gugliotta (Roma, maggio 2010); e ancora i casi di Luciano Diaz (Voghera, aprile 2009); quello di Nicolò e Tommaso De Micheli (Venezia, aprile 2009) e quello di Giuseppe Uva (Varese, giugno 2008).
Si tratta, come è evidente, di episodi l’uno diverso dall’altro, sui quali la magistratura deve ancora svolgere o completare le sue indagini; e di vicende che coinvolgono anche altri corpi dello Stato.
E si può aggiungere che, sul piano statistico, rappresentano una percentuale assai ridotta. Ma – ecco il punto - quelli ricordati sono solo gli episodi venuti alla luce rispetto ai tantissimi dei quali si hanno informazioni approssimative (e magari fallaci), ma che segnalano un clima pesante, avvertibile dall’esperienza quotidiana di molti cittadini. A un numero crescente di agenti capaci di intrattenere relazioni civili, si affiancano molti che riproducono un atteggiamento autoritario, se non prepotente, nei confronti del comune cittadino. Non solo: dal G8 di Genova sono passati più di dieci anni e si può dire che il mondo sia cambiato (anche all’interno delle caserme), ma se quegli episodi di “sadismo collettivo” si sono verificati, non li si può attribuire a una sorta di occasionale follia e di esplosione patologica. Ci si deve chiedere, piuttosto, quale tipo di formazione ricevano, quale senso comune venga alimentato nelle caserme, quali valori di riferimento siano trasmessi. Un decennio trascorso da quel G8 è stato sufficiente a modificare il paesaggio mentale delle forze dell’ordine? C’è da dubitarne se si considera, appunto, quanti sono i fermi approssimativamente motivati da “resistenza a pubblico ufficiale”, quanti gli arresti considerati illegali da parte della magistratura, quanti i casi poco chiari denunciati e troppo sbrigativamente archiviati. Non solo. C’è da considerare che il potere di polizia può prevedere la deroga, e il ricorso all’uso della forza anche “eccezionale”, in nome della sicurezza pubblica, e dell’ordine sociale: e nella misura in cui quella disponibilità alla deroga è introiettata nel corpo e nei suoi appartenenti come una specifica qualità professionale (capire come e quando si può e si deve “eccedere”), è facile che l'emergenza si mangi il diritto, e le regole dello stato di diritto. O che il singolo si senta onnipotente, arbitro del bene e del male.
Si tratta, certamente, di questioni delicatissime, che quasi mai sono entrate nell’agenda politica e nella discussione pubblica. E sono state proprio le recentissime parole del ministro dell’Interno e del capo della Polizia a suggerirci di riproporle. E proprio perché se “un cittadino entra vivo in questura e ne esce cadavere”, ma anche solo vittima di abusi, è l’intero sistema di diritti e garanzie che risulta lesionato in profondità. È lo stesso regime democratico che subisce una crudele offesa. Perché, giova ricordarlo, quando un individuo è nella custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini – una pattuglia della polizia, una caserma, un carcere, un centro di identificazione e di espulsione – l’incolumità e l’integrità di quell’individuo è, per lo Stato, il bene più prezioso.

Il Messaggero 16 luglio 2012
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Commenti (1)
  • francesco dal pane  - manconi il fascista
    difficile rispondere a questo corrotto politico che da del fascista a chi non la pensa come Lui. Per fortuna gli ha risposto il grande Massimo Fini sul fatto di oggi. Il problema è che a buon rovescio, movimento profit creato dal sopraddetto e dai suoi amichetti, chiedono il 5%1000. Chissà in che tasche finiscono questi soldi che hanno permesso a Manconi di non lavorare...Ad maiora
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