Il Governo tratta i migranti come Tokio tratta Fukushima, senza pathos

Luigi Manconi

Alcune sere fa, nel corso di “Qui Radio Londra”, Giuliano Ferrara ha commentato la tragedia avvenuta appena qualche ora prima e la morte in mare di  circa 250 persone.

Ferrara ha avuto accenti intensi e ha fatto ricorso più di una volta alle categorie di  emozione e compassione a Roma, non costituiscano un gigantesco costo economico e un colossale scialo di risorse e di ricchezza non solo potenziale? Noto con stupore che i tagli in questa materia, sia sul piano delle politiche di accoglienza e integrazione sia su quello dei costi e degli investimenti che quelle stesse politiche comportano, sono considerati un esercizio di oculatezza e di rigore. Mentre sono, palesemente, un’ espressione del “cattivismo” più dozzinale e bolso, diseconomico e autolesionistico. Si ripete l’errore fatto a proposito dell’ energia nucleare, dopo l’incidente nella centrale di Fukushima. Chi invita a  “ragionare senza emotività” non è in genere, un economista o un fisico, bensì uno stratega da monopoli, ostinato a ignorare come la paura abbia un suo corposo e monetizzabile costo economico. . Giustissimo. (Pare che anche Carlo “cuoredipietra” Giovanardi abbia provato un qualche sentimento di fronte a quella strage). Ferrara è troppo fine per contraddire quanto da lui stesso detto col perentorio richiamo alla Realpolitik e alla “dura legge dei numeri”, come farebbe un Castelli o un Gasparri qualsiasi. E, tuttavia, nel suo discorso pur così ispirato si avvertiva, come un ostacolo insormontabile, il sottinteso  di un  MA che condizionava e limitava quanto veniva detto. Quasi una sorta di paratesto o un segnale luminoso ( come quello che, in Ben Hur, appariva, in alto a destra, ogni volta che si evocava il nome di Dio), che sembrava volesse dire: questo non è un discorso politico; la politica è altra cosa. La politica si farebbe con quel MA, che obbliga a parlare di numeri e di percentuali (quanti sbarcano e quanti vengono rimpatriati), di costi e di risorse (quanti euro al giorno per migrante e quanti milioni di euro dall’Europa). Un MA che, in ultima analisi, riduce tutto a rapporto di forza: filo spinato e motovedetta, Centro di identificazione e di espulsione (Cie) e reato di clandestinità. Ancora: un MA che espunge emozione e compassione e fa della politica una prassi  di amministrazione di ciò che è. Si tratta di un errore capitale. Un errore che spiega bene anche la crisi del Pdl. E infatti, nella fase iniziale, il partito di Silvio Berlusconi era una formazione ad altissimo tasso di emotività, che addirittura  – sulla scorta di alcune letture del “ capitalismo compassionevole” americano-  prevedeva la possibilità di una qualche politica affidata alla com-passione. Oggi, di quest’ ultima resta solo la versione macchiettistica alla quale indulge il premier ( “ho salvato Ruby dal marciapiede”, “ho aiutato quelle ragazze a laurearsi, a educare i propri figli, a soccorrere gli anziani genitori …”). E la stessa emozione, componente fondamentale di ogni mobilitazione collettiva, tanto più si è inaridita, quanto più si è rinsecchita in rito,è diventata isteria celebrativa, ha assunto forme stereotipate. Oggi  l’emozione sembra concentrarsi esclusivamente nel rapporto gregario e nella sudditanza psicologica verso il Capo. Ma una politica che perde l’anima –la sede, appunto, delle pulsioni emotive e delle esperienze sentimentali- può ancora motivare all’azione? E il discorso non riguarda solo il Pdl e il sistema dei partiti. Riguarda l’intera sfera pubblica. Da vent’ anni, in materia di immigrazione, assistiamo a una politica anti-buonista (secondo l’orripilante linguaggio che fa capolino perfino su queste colonne) a opera della Lega nord: una politica che si vorrebbe più che rigorosa, intransigente  e inflessibile. Di quella politica il fora da i ball non costituisce -come ipocritamente si vorrebbe- una mera incontinenza verbale, bensì un vero e proprio programma ideologico. Tuttavia, quel programma è fondato, a sua volta,  su una forte componente emotiva, ma a somma zero. Per un verso, il massimo dell’ emotività indigena ( l’ansia collettiva verso l’immigrazione, la voglia di rivalsa sociale, la frustrazione dolente e incattivita delle periferie) e, per l’altro,  la mortificazione dell’ emotività straniera (il cercare scampo, la volontà di riscatto, il desiderio di futuro). Ma questo conflitto tra due emotività che rischiano di annullarsi reciprocamente non porta da nessuna parte. O meglio: porta – lo riconoscerà il Foglio?- al fallimento più totale della politica del centrodestra sull’immigrazione. Incondizionatamente sconfitta, quella politica, sul piano della repressione e altrettanto incondizionatamente umiliata su quello della regolamentazione dei flussi, del rapporto con i paesi da cui si emigra, delle relazioni all’interno della comunità europea. E se fosse vero, invece, che una politica per l’immigrazione, anche di centrodestra, richiede una combinazione sapiente tra diritto e compassione, tra norma e umanità, tra sovranità della legge e sensibilità dell’ospitare? Ma davvero si pensa che i fuggiaschi respinti, i migranti annegati, gli irregolari nei Cie, i profughi al binario 15 della stazione Ostiense

Il Foglio 13 aprile 2011

Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.