• 1- Il racconto - Patrizia Conti
  • 2- La ricerca degli adulti - Francesca Avon


1- Il racconto - Patrizia Conti
Ricordare il primo incontro con Thi Hong non è difficile, tanto intensa è stata quella giornata. Difficile è, piuttosto, rendere a parole la profondità di quelle emozioni, il susseguirsi di sensazioni diverse, a volte anche contrastanti. A riviverle a distanza di tempo sembra di aver vissuto un sogno, di essere stati in trance e nello stesso tempo avere la consapevolezza di quanto reale sia stato quel giorno, quelle ore trascorse dal momento dell’arrivo all’Istituto fino all’ultimo secondo di quella giornata, quando Thi Hong si è addormentata nel suo lettino ai piedi del nostro, magicamente già in noi oltre che con noi. I ricordi si rincorrono, si accavallano tra loro e si affacciano alla mente reclamando ognuno priorità.
Arriviamo nel tardo pomeriggio ad Ha Noi e ci viene detto che il mattino dopo alle 8 saremmo andati a prendere i bambini; per quanto preparati, per quanto ansiosi di quel momento ci assale un vago senso di panico ma anche il desiderio che il tempo mancante si annulli e sia già domani. Nonostante ciò, ma forse solo a causa del viaggio, del fuso orario, dello stress, dormiamo ed il mattino dopo siamo sul piccolo pullman che ci porta all’Istituto, assieme a tutte le altre coppie. Il nervosismo è palpabile, tutti pensano solo a quegli esserini che di li a poco incontreremo e che diverranno istantaneamente parte di noi. Si crede che l’emozione sarà forte ma controllabile ….Non è così! Arriva il momento …..la breve cerimonia, l’orribile the verde ed ecco che entrano i piccoli uno alla volta …. sono sette … Thuong è l’ultima. L’avevamo sentita nostra ancor prima di vederla in foto, era bastata la telefonata a farci sentire che solo lei era l’unica figlia al mondo mai desiderata, anni di dubbi, esitazioni, paure era scomparsi in un’unica breve telefonata. Avevamo vissuto quell’ultimo mese con quella foto, che ci accompagnava magicamente ed irrazionalmente in ogni minuto della nostra giornata.
Ora, era finalmente lì davanti a noi. Il suo viso esprimeva disperazione assoluta, piangeva. Sembrava capire ogni cosa, capire che abbandonava quello che era stato il suo mondo fino ad allora, per affrontare l’incognito. Si è avvinghiata a quella che lei non sapeva fosse la sua mamma come un naufrago all’unico pezzo di legno che galleggia nella notte di tempesta dopo che il suo vascello e tutti i compagni si sono inabissati. La mamma, inghiotte il nodo in gola che la sta per soffocare e le lacrime che sente salire. La accoglie tra le sue braccia nell’unico modo che le riesce possibile, stringendola forte al petto e magicamente dopo qualche istante la bimba sfinita si addormenta, da quel momento saranno tutt’uno per parecchi giorni. Il padre si vede, ora, come un automa, si avvicina, cerca di intervenire, di essere partecipe, ma Thi Hong nell’immediato non gli lascia spazio, lo rifiuta. Una domanda per certi aspetti terribile ma onesta “Stiamo veramente facendo la cosa giusta?” La domanda si è protratta a lungo, tutto il pomeriggio, guardando Thi Hong piangere muta, mentre alternava al sonno, sguardi attoniti e sospiri angosciati, fino alla magia di quando si è addormentata nel suo lettino, con il viso diventato finalmente sereno. In quel momento la domanda ha avuto la risposta. Si, è stata la cosa giusta, ma l’ha fatta Thi Hong accettandoci come suoi genitori, ed oggi a distanza di mesi questa consapevolezza è sempre più forte. Noi, ci siamo resi disponibili ad essere i suoi genitori, ma Thi Hong ha fatto il passo più importante accettandoci come tali.

Premessa
Il nostro intervento prende le mosse da una ampia collaborazione professionale nella condivisione di temi clinici. Nel corso del tempo ci siamo frequentemente ritrovate a spartire pensieri e riflessioni rispetto a tematiche di comune interesse e non solo per la condivisa appartenenza a un ambito di pensiero, quello junghiano, che ci vedeva riferire alla medesima società analitica. Accanto a formazione e orientamento nel modo di affrontare la riflessione su pazienti e su fenomeni psicologici collettivi, ha costituito un motivo importante un’esperienza professionale nella giustizia minorile, sia pure in ruoli e pozioni diverse di osservazione e di studio.
In particolare quello dell’adozione è un tema che ha suscitato in entrambe un interesse di riflessione rispetto a tematiche che lo rappresentano e l’accompagnano. Ci siamo infatti ritrovate a confrontarci rispetto all’importanza delle ricerca proprie origini e alla narrazione della propria storia nella sua ricomposizione ad opera di altri, o ricercata da sé per il processo individuativo.
Gli ambiti in cui raccogliamo gli elementi su cui riflettere sono molto diversi: la ricerca dei propri genitori tramite un’istanza presentata al Tribunale e la narrazione tra genitori adottivi e bambino adottato nel primo incontro di sostegno postadottivo.
Ambiti diversi, ma tematica analoga: la narrazione di sé, della propria storia a fondamento della percezione della propria origine e della propria appartenenza. Implicata ovviamente la costruzione di una identità coerente e coesa. Ma anche una chance individuativa altrimenti messa in forse.

La narrazione
Il narrarsi e il narrare, e ancor più il sentir narrare di sé è l'occasione preziosa di ricompattare, integrare, ritessere e "rimagliare” parti proprie, le diverse componenti di cui la propria storia è inevitabilmente composta.
Il passato narrato cura se è promessa per il futuro e per la mente, quando, nel suo raccogliere riorganizzando e riunendo “i pezzi”, si pone l'obiettivo di rintracciare i diversi momenti, i diversi ruoli, le diverse parti all'interno di discontinuità e rotture della continuità esperienziale, così come inevitabilmente nel corso del tempo si succedono, più o meno intense, più o meno profonde.
È proprio attraverso la narrazione, vero e proprio campo transizionale, che si viene a creare di volta in volta, un importante consolidamento e rafforzamento del legame fin lì creatosi e sviluppatosi tra le diverse parti di sé e della propria storia. Talora è lì che si crea o si ripara e addirittura si sana, se sono occorse rotture e distorsioni.
Il racconto rafforza il sentimento di convivere con gli altri e consolida il sentimento di appartenenza. La convivenza dei/con/per i frammenti della propria esistenza diventa, dunque, componente essenziale per il personale sentimento di coesione e di integrità.
Si tratta forse dell’aspetto più affascinante, pur se non quello più “curativo” (lo sono tutti in pari misura!) della narrazione, quello che inserisce l’individuo nel suo contesto, mettendo in rilievo la tessitura della sua origine familiare e delineando i contorni della sua appartenenza sociale, nel permettergli di “tramandare” una cognizione, che solo se narrata può divenire “tradizione”.
Con i bambini adottivi si tocca con mano il “simbolico”, che viene declinato secondo specifici fattori e peculiari processi in cui prendono forma i processi narrativi.
Fin da subito, e non solo dal concreto attivarsi della coppia per dare realizzazione al proprio intento adottivo, ma già fin dal primo prender corpo del progetto generativo, la narrazione inizia a profilarsi nella sua importanza costitutiva, collocandosi all’interno di una rete di relazioni e di trasmissione intergenerazionali.
Ma è poi, quando il progetto prende forma, che inizia il processo di maturazione della disponibilità concreta ad accogliere un bambino, che si avvia un dialogo, forse prima solo interiore, o interno alla coppia, ma poi via via allargato ad un conteso relazionale più ampio, comprendente familiari, amici e conoscenti, ma anche operatori e tecnici.
Nella frenesia di costruire il progetto non vi è il “tempo” di narrare, nel travolgimento dell’incontro non vi è lo spazio mentale, nel momento della routine, invece, si apre il tempo e si crea lo spazio per narrarsi così da poter trasmettere al figlio una storia recente ma che affonda le sue radici in un passato lontano di coppia, e una storia del bambino nel suo “prima” quasi del tutto sconosciuto.
A distanza di qualche mese, verso la scadenza del primo anno adottivo, si profila sempre più intensamente, anche se spesso accompagnato da quasi inconfessabili timori e dense inquietudini, il desiderio di dare senso a questo primo importantissimo periodo insieme, nel ripensare al percorso adottivo prima dell’incontro, al momento in cui l’incontro si realizza e si concretizza così “l’adozione”. Vi è sotterranea anche l’esigenza di riconciliarsi con il passato doloroso di impossibilità generativa, con la sensazione di inefficacia, con l’esperienza della perdita, col vissuto di una mancanza.
Si sono ormai affacciati anche i pensieri relativi all’abbandono e al trauma, che, affrontati apertamente nella fase del pre-adozione, hanno ora una “corporeità” sconcertante nell’essere rappresentati dal bambino, da un essere così intensamente desiderato e immaginato, che con la sua concreta presenza pone e ripropone ai genitori quella che tra le tematiche umane è la basilare e fondativa, la più antica in termini filogenetici oltre che ontogenetici:la paura dell’abbandono.
Ecco che riuscire a pensare alla storia del bambino, a quella del prima, a quella del mentre e a quella del subito dopo offre la possibilità di affrontare tematiche di incredibile pregnanza sul piano emotivo con risvolti di eccezionale profondità dal punto di vista degli affetti.
In questo senso il narrare e il raccontare, a sé stessi come individui, a sé come coppia e al bambino nel post-adozione permette di ricomprendere l’altro, confermandosi in una nuova complessità relazionale, con una nuova realtà familiare appena costituitasi, e ciò anche quando un bambino è già presente.
Il “rivedersi” nel rappresentarsi nuovamente gli avvenimenti visivamente e graficamente, nei diari, negli album, nei libri, con le foto e i disegni che accompagnano lo scritto, permette l’aprirsi di un nuovo spazio di riflessione.
In questo senso la narrazione ricrea e ripercorre un viaggio, che assume una valenza intensamente formativa e trasformativa, che chiude con i debiti e crediti: ora ci sei e siamo insieme.

Valenze individuative
L’individuazione viene definita da Jung come il processo di differenziazione teso allo sviluppo della personalità individuale, ossia dello sviluppo delle particolarità di un individuo sulla base della sua disposizione naturale.
Pur costituendo una “via individuale” che può deviare rispetto a quella consueta, si colloca all’interno di una dialettica individuo – collettivo.
Il processo d'individuazione è un percorso che pone l'uomo a confronto con il mondo interno ma anche esterno: da un lato processo d'integrazione interiore, soggettivo e dall'altro processo oggettivo di relazione.
Il senso della propria identità implica la relazione con l'altro come diverso da sé, si struttura confrontandosi, scontrandosi e misurandosi nei rapporti interpersonali.
Ecco che la narrazione assume un valore individuativo, contribuendo grandemente e intensamente a incentivarne il processo, a consolidarne i risultati, a promuoverne l’ulteriore sviluppo.


2- La ricerca - Francesca Avon

La legge sulle adozioni, in Italia, prevede  che al compimento del venticinquesimo anno una persona adottata, con una serie di limitazioni e di filtri,  possa rivolgersi al Tribunale per avere informazioni sulle proprie origini. Questo significa che può accedere a tutti i documenti relativi alla propria vicenda, prima e dopo l’adozione. Può quindi venire a conoscenza anche dell’identità dei propri genitori biologici.
Come si sa, In Italia, a differenza di quanto accade invece in altri paesi come gli Stati Uniti, l’adozione rescinde tutti i legami con la famiglia biologica: il bambino o la bambina assumono il cognome dei nuovi genitori e non hanno più contatti con la famiglia di origine che, da parte sua, da quel momento non saprà più nulla del figlio o della figlia.
Da questa possibilità sono esclusi solo i figli di donne che al momento del parto chiedono espressamente di non essere nominate. In Italia, unico paese europeo oltre alla Francia e al Lussemburgo, la donna ha diritto al parto anonimo. E’una legge che ormai ha  quasi cent’anni  e che si poteva spiegare da una parte con  l’esigenza di scongiurare gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati ma anche con l’esigenza di tutelare la “rispettabilità” della donna  rispetto alla disapprovazione sociale che una gravidanza extraconiugale avrebbe potuto suscitare.  Nel caso del parto anonimo, non è previsto che la  donna possa recedere dalla propria decisione nel tempo e questo significa che, qualora la figlia o il figlio volessero ricercare le proprie origini, il Tribunale non potrebbe consentire loro di accedere alla documentazione.  Si tratta, ovviamente, di una norma molto discussa in quanto, secondo molti, lede il diritto a conoscere dei figli adottivi.  
In questi anni, nel corso del mio lavoro come componente privato del tribunale per i minorenni di Milano, ho incontrato circa trenta persone in cerca delle proprie origini.  Di queste, più o meno un terzo erano figlie o figli di donne che al momento del parto non avevano acconsentito di essere nominate.
Solo in pochissimi casi  queste persone avevano maturato questa decisione nell’ambito di un percorso terapeutico. Nella grande maggioranza si trattava di un bisogno imprenscindibile, maturato autonomamente.
E’ interessante notare  che  la fascia numericamente più consistente riguarda persone tra i 30 e i 50 anni di età. Questa ricerca sembra attivarsi quindi in un momento della vita successivo rispetto il limite minimo di 25 anni previsto dalla legge. Si tratta perlopiù di persone arrivate alla soglia della seconda metà della  vita. La loro  ricerca sembrerebbe quindi caratterizzata da quella che definirei una esigenza di individuazione. Non è infatti, come raccontano spesso anche le fiabe,  proprio  la curiosità, il bisogno di sapere infrangendo un segreto, a provocare la crisi individuativa nella vita di una persona?
Penso a quanto scrive  Neumann, quando afferma che la psiche continua a ripresentare la domanda sulle origini come un interrogativo  essenziale. “Il problema dell’inizio è anche il problema della provenienza, dell’origine e del destino, cui la cosmologia e il mito della creazione hanno cercato di dare continuamente risposte nuove e diverse. Il problema dell’origine, della provenienza del mondo, è sempre anche il problema  della provenienza dell’uomo, della coscienza e dell’Io, è la domanda fatale ‘da dove vengo io’ che si pone a ogni essere umano quando giunge alla soglia della presa di coscienza di sé”.    (1 )
Ritornando all’esperienza al Tribunale per i minorenni, se prendo in considerazione le situazioni  di vita in cui si  attiva questo bisogno, mi accorgo che  si tratta di eventi scatenanti che implicano dei passaggi, dei cambiamenti relativi all’identità e all’appartenenza. Al centro di queste nuove situazioni di vita a volte c’è la presenza di un bambino reale e i propri vissuti rispetto a esso. Queste situazioni possono riguardare una separazione e la preoccupazione legata al pensiero che i figli piccoli possano soffrirne, la nascita di un figlio,  l ’arrivo in famiglia di uno o più figli adottivi. Oppure anche la scoperta della propria sterilità o, a volte, la morte di un figlio.
In altri termini: il bisogno di conoscere sembra muoversi a partire da questo aspetto “bambino”, probabilmente dissociato fino a quel momento, e porta ad affrontare inevitabilmente vissuti e stati d’animo legati all’abbandono, al dolore e alla perdita.
In un ambito  terapeutico “guarire” significa anche recuperare una narrazione coerente della propria vicenda esistenziale, essere in grado cioè di stabilire quelle connessioni tra l’esperienza intrapsichica e la realtà esterna, nel presente e nel passato, che sono state danneggiate e dissociate nelle situazioni di trauma cumulativo. L’impossibilità di misurarsi con contenuti dolorosi impedisce infatti la costruzione di una personalità integrata: aiutare il paziente a trovare un significato nella propria storia e a rinominare le esperienze vissute è il compito del terapeuta. Jeremy Holmes, teorico dell’attacamento, lo definisce  addirittura un “assistente biografo” che accompagna il paziente come una  madre ben sintonizzata e lo aiuta a” trovare storie che corrispondano all’esperienza”. La salute psichica è caratterizzata cioè  dalla capacità riflessiva, dal passaggio da una narrazione patologica o “complessuale” a una narrazione in cui il soggetto non è più soltanto una  “vittima” degli accadimenti. In  relazione a questo, Holmes  parla appunto di  “ uno spostamento da una narrazione di malattia  sicura ma ristretta  (…) alla possibilità  di una narrazione nuova e meno ristretta”. (2)
Ma anche al di fuori  di un percorso analitico, questo bisogno autobiografico sembra porsi come  un’ insopprimibile esigenza umana che ha lo scopo di strutturare  l’identità attraverso la creazione di nessi e collegamenti nella spazio e nel tempo per dare un senso agli eventi.
“Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei genitori” scrive il filosofo Aldo Gargani, “ma poi c’è una nuova nascita, che non è quella recepita all’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura che stabilisce il nostro stile secondo il quale noi ora esigiamo di essere compresi dagli altri”. (3)
Recuperare una narrazione non significa quindi arrivare a una ricostruzione precisa e assoluta di ciò che è stato,  avviare una sorta di indagine poliziesca,  quel che conta sembra essere piuttosto  una ricerca di significato.  E di legami, perché l’appartenenza è un aspetto irrinunciabile dell’identità. Mi definisco in base a un sentirmi parte, su un piano individuale ma non solo.  Se noi siamo la nostra storia, la nostra storia comprende, oltre al passato personale, le generazioni che ci hanno preceduto perché, come dice Jung, “la maledizione degli Atridi non è una frase vuota di significato”, intendendo con questo che siamo anche portatori della problematica dei nostri genitori che, a loro volta, si devono considerare come figli dei propri genitori e così via.
E, in questo senso, l’esperienza dell’adozione rappresenta uno strappo doloroso nella genealogia.
Questi aspetti sono evidenti nella motivazione che spinge  le persone adottate a cercare le proprie origini, ricorrono nelle loro parole.
Raramente  le persone  giustificano la loro ricerca con la precisa intenzione di incontrare i genitori biologici. Ho potuto verificare che spesso si trattava  di bambini molto deprivati al momento della dichiarazione di adottabilità. Vorrei citare una storia, in particolare, che   mi ha colpito molto, quella di un bambino cresciuto fino ai tre anni in una condizione di trascuratezza assoluta, come un “bambino lupo”, al punto  di essere costretto a giocare a nascondino da solo. Motivando il suo desiderio di accedere alla documentazione, questo giovane uomo di 28 anni parlava  del  desiderio di cercare e incontrare i genitori, in particolare il padre, per poterlo aiutare qualora si fosse trovato in una condizione di  bisogno. In questo caso mi sembra evidente la funzione difensiva di questa fantasia grandiosa che gli consentiva   di negare il trauma e la deprivazione subiti.
Ma, nella grande maggioranza dei casi di cui  i sono occupata, il bisogno preminente sembra invece quello di ricostruire una storia.  Molte persone parlano del bisogno di distinguere tra la fantasia e la realtà. Nelle situazioni di abuso e di deprivazione  la capacità di contare su una narrativa personale è seriamente compromessa, realtà e fantasia possono infatti venire confuse, in relazione alla tendenza a dissociare l’esperienza dolorosa.
C’è chi parla  della necessità di “fare ordine” tra i ricordi dell’infanzia. Chi sente l’ esigenza di  confrontare le immagini oniriche che riguardano un genitore  naturale “con dati reali”. Qualcuno ha parlato del bisogno di “dare una cornice ai fatti”.
Perché quel che manca è proprio  una struttura di significato.
E’ importante distinguere tra il bisogno del bambino adottato di sapere e quello di capire, come afferma Marco Chistolini (4): non sono infatti le informazioni dettagliate a contare. E questo mi sembra valga anche per le persone adulte che si rivolgono al tribunale.
Il senso di queste richieste sembra essere quello di poter entrare nella mente dei genitori. Perché soltanto immaginando di essere stato pensato posso esistere, definirmi. La domanda sembra essere: “cosa avevano in mente” mentre si ponevano in relazione con me? E cioè: che cosa avevano in mente quando mi hanno abbandonato?
L’esigenza imprescindibile sembra essere quella di poter riflettere sui comportamenti degli altri, sulle azioni che hanno portato all’abbandono.
Come ho già accennato, da questa possibilità sono esclusi  i figli di madre ignota. Non  può essere consegnato nemmeno il certificato integrale di nascita perché attraverso i nomi dei testimoni si potrebbe risalire all’identità della madre, violandone la privacy. E non poter accedere ai propri dati rappresenta un ulteriore abbandono. E’ un rifiuto esercitato dalla madre al momento della nascita che si protrae anche  nel futuro, per sempre. Ed è molto pesante accettarlo nel momento in cui viene comunicato.
Anche se la legge non lo prevede, in alcuni casi sono stata presente alla consegna e alla lettura dei documenti. Si trattava di situazioni in cui avevo la sensazione che per queste persone ritrovarsi da sole davanti alle relazioni dei servizi sociali che documentano con un linguaggio a volte crudo e asettico realtà deprivate e traumatizzanti potesse rivelarsi un’esperienza emotivamente insostenilbile.
Insieme ad altri colleghi abbiamo pensato di fornire una sorta di contenitore, creando un setting nella stanza del tribunale. Forse, penso ora, si è costellato in quelle occasioni un vissuto di abbandono che ha attivato un mio controtransfert materno e che mi ha portato quindi a sentire la necessità di fornire un holding che andasse oltre le funzioni previste da un articolo di legge.
Mi sono  interrogata se sia  vero che in presenza di una “buona adozione” questo bisogno  di andare alla ricerca delle proprie origini in età aduta non esista. Con buona adozione intendo una situazione in cui la famiglia,  consapevole dei bisogni e dei vissuti del bambino adottato, sia stata in grado di accoglierli e contenerli  adeguatamente.
Non ho gli elementi per esprimere una valutazione in tal senso riguardo  i casi presi in considerazione.  Ho comunque notato che spesso la famiglia adottiva è all’oscuro della richiesta fatta al tribunale e le spiegazioni fornite rispetto questo silenzio sono legate al bisogno di proteggere i genitori, di non ferirli. Molte persone si decidono a fare la richiesta soltanto dopo la morte dei genitori adottivi. Spesso, il vissuto di colpa è molto intenso.
Mi sembra comunque estremamente  riduttiva una lettura che riconduca il bisogno di andare in cerca delle proprie origini a un fallimento adottivo.
Spesso  mi sono trovata davanti a persone anziane. Ricordo, per esempio, un uomo di settant’anni che aveva scoperto solo in età adulta di essere stato adottato e che aveva perso da poco in un incidente l’unico figlio. La sensazione di essere privo di radici ma anche privo di un futuro lo spingeva a chiedere e a informarsi.
Questo aspetto dell’età avanzata mi porta a pensare che, molto probabilmente, la domanda  “perché sono stato abbandonato” non possa mai trovare una risposta nel corso di una vita,  ma continui a ripresentarsi  nel tempo.  E’ noto che in situazioni di abuso, di trascuratezza  e di maltrattamento  come quelle che portano alla dichiarazione di adottabilità il bambino traumatizzato avrà difficoltà a considerare gli altri come dotati di sentimenti, intenzioni e desideri poiché questo implicherebbe il riconoscimento di atteggiamenti nei propri confronti troppo dolorosi da riconoscere quali l’odio o l’indifferenza. Sembra esserci  quindi un frammento dissociato che tale rimane per tutta l’esistenza, come se il dolore legato all’ esperienza dell’abbandono restasse un’emozione  impensabile, intollerabile.

NOTE
(1) Neumann Erich, “Storia delle origini della oscienza”, Astrolabio, Roma  1978
(2) Holmes Jeremy, “Psicoterapia per una base sicura”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004
(3) Gargani Aldo Giorgio, “Il testo del tempo”, Laterza, Bari 1992
(4) Chistolini Marco, “Le informazioni nell’adozione: quale significato nella crescita del bambino” in Minorigiustizia, 3, Franco Angeli, Milano 2003
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