Carità e diritto
Luigi Manconi
Questo articolo ha la più irriguardosa delle pretese: spiegare a qualcuno quali siano le sue vere idee. Ambizione tanto più spericolata se il destinatario di tale missione pedagogica è Giuliano Ferrara: e tuttavia impresa opportuna dal momento che il suo articolo sul Foglio di martedì scorso ( “Una legge che non si fa amare”), rivela vertiginose e appassionanti contraddizioni. Una in particolare: Ferrara se la prende, ancora una volta, con “i puritani del Palasharp e col solito scrittore banale (…), in prima linea nel combattere in questa legge la cultura con la quale mi identifico”.(Prima o poi si dovrà affrontare l’imbarazzante questione dell’ inferiority complex, degli intellettuali di destra nei confronti degli intellettuali di sinistra, come si manifesta in quell’ acidulo senso di rivalsa che perfino uno come Ferrara rivela). Dunque, intendo spiegare a Giuliano Ferrara che  la cultura nella quale dice di identificarsi, e che eccentricamente crede essere quella dell’attuale centrodestra, non ha la minima relazione col disegno di legge sul “testamento biologico” voluta dalla maggioranza. Se non ne fosse convinto, dovrebbe leggere il simpatico componimento, a firma di Raffaele Calabrò, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello,  pubblicato sul Corriere della Sera  dell’altro ieri. Si tratta di una ineffabile esercitazione sub-retorica, che ha lo spessore di un temino di seconda liceo , scritto con la corrusca leggiadria di un Biagio Antonacci. Nulla c’è, in quell’articolo, di quello che davvero è, il cuore del problema: ovvero, come scrive il Foglio, il conflitto fra carità e diritto. Conflitto terribile, destinato a non trovare stabile equilibrio né agevole soluzione, e che tuttavia non può essere eluso, come appunto quella legge  pretende di fare. E così, di fronte  a una questione controversa quale quella della nutrizione e idratazione artificiali, il conflitto -lì più doloroso che mai- tra carità e diritto viene “risolto”, sottraendo al soggetto la facoltà di decidere. Ne può conseguire che una persona capace di intendere e di volere, che avesse affidato a una qualche forma di dichiarazione anticipata il proprio “Testamento biologico”, non avrebbe alcuna garanzia che la sua volontà venisse rispettata. Se infatti avesse dichiarato di rinunciare a nutrizione e idratazione artificiali, una volta che si trovasse incapace di intendere e di volere, quei trattamenti sanitari (così definiti dalla comunità scientifica e dall’ordine dei medici) potrebbero venirgli imposti. Pertanto, la decisione su quel corpo e su quella vita (su quanto di comunque inestimabile resta di essa) verrebbe sottratta sia alla carità della “cura amorevole” sia al diritto all’autonomia del soggetto, e consegnata  al dispotismo etico di una legge di maggioranza. Qui sta il punto. Molti ritengono che su tali questioni meglio sarebbe non legiferare. E, infatti, troppo grossolana  è fatalmente  la scrittura della legge (di qualsiasi legge)  rispetto alla delicatezza e alla complessità e, ancor più, alla molteplicità delle concrete situazioni e patologie e condizioni problematiche  alle quali quella legge  dovrebbe applicarsi. Posizione da me non condivisa, eppure interessante. All’opposto sta la legge in discussione: di fronte al tremore di una scelta tragica, invece di assumerne la gravosa responsabilità (continuare o sospendere nutrizione e idratazione artificiali), si decide di estromettere la volontà del soggetto. E di  affidare la scelta, conseguentemente,  all’apparato biotecnologico. Ancora: se è vero come è vero che, dietro tutto ciò, si ripropone –irriducibile-  il conflitto tra carità e diritto, una legge buona è quella che assicura la fertilità della relazione tra quelle due categorie, senza che mai l’una prevarichi sull’altra, fino ad azzerarla. Al contrario, quelle due categorie devono, per quanto faticosamente,  convivere. E, infatti,“i valori potenzialmente in conflitto sono noti. Da un lato l’indisponibilità della vita, anche la mia, a ogni manomissione, e tanto più nelle sue situazioni di precarietà; dall’altro la libertà della persona che vive –e muore!- in questa indisponibilità”( Eugenio Mazzarella in“Vita politica valori” Guida 2010). Se carità e diritto interagiscono tra loro, si mettono in crisi vicendevolmente,  misurano la rispettiva fragilità, si avrà davvero esperienza umana. Che è anche rischio, errore, fallimento. Se si vuole evitare tutto questo, la soluzione è semplice: basta imporre per legge che, ad esempio, nutrizione e idratazione artificiali “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.”(Art. 3, comma 6). O, ancora meglio, decidere che quelle e altre dichiarazioni non siano vincolanti. Ma se è così, siamo in presenza di un’autentica impostura: nel momento in cui viene negata al soggetto la possibilità di esercitare l’auto-nomia, è il nomos dello Stato, ovvero l’autorità pubblica, che si impone. E si impone laddove più vulnerabile è l’identità della persona, più sofferente è la percezione dell’ esperienza estrema, più sensibile è la cognizione della propria finitezza. E’ così che si afferma la “bioetica di Stato”.
Il Foglio, 01-03-2011
Carità e diritto
Luigi Manconi
Questo articolo ha la più irriguardosa delle pretese: spiegare a qualcuno quali siano le sue vere idee. Ambizione tanto più spericolata se il destinatario di tale missione pedagogica è Giuliano Ferrara: e tuttavia impresa opportuna dal momento che il suo articolo sul Foglio di martedì scorso ( “Una legge che non si fa amare”), rivela vertiginose e appassionanti contraddizioni.
Una in particolare: Ferrara se la prende, ancora una volta, con “i puritani del Palasharp e col solito scrittore banale (…), in prima linea nel combattere in questa legge la cultura con la quale mi identifico”.(Prima o poi si dovrà affrontare l’imbarazzante questione dell’ inferiority complex, degli intellettuali di destra nei confronti degli intellettuali di sinistra, come si manifesta in quell’ acidulo senso di rivalsa che perfino uno come Ferrara rivela). Dunque, intendo spiegare a Giuliano Ferrara che  la cultura nella quale dice di identificarsi, e che eccentricamente crede essere quella dell’attuale centrodestra, non ha la minima relazione col disegno di legge sul “testamento biologico” voluta dalla maggioranza. Se non ne fosse convinto, dovrebbe leggere il simpatico componimento, a firma di Raffaele Calabrò, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello,  pubblicato sul Corriere della Sera  dell’altro ieri. Si tratta di una ineffabile esercitazione sub-retorica, che ha lo spessore di un temino di seconda liceo , scritto con la corrusca leggiadria di un Biagio Antonacci. Nulla c’è, in quell’articolo, di quello che davvero è, il cuore del problema: ovvero, come scrive il Foglio, il conflitto fra carità e diritto. Conflitto terribile, destinato a non trovare stabile equilibrio né agevole soluzione, e che tuttavia non può essere eluso, come appunto quella legge  pretende di fare. E così, di fronte  a una questione controversa quale quella della nutrizione e idratazione artificiali, il conflitto -lì più doloroso che mai- tra carità e diritto viene “risolto”, sottraendo al soggetto la facoltà di decidere. Ne può conseguire che una persona capace di intendere e di volere, che avesse affidato a una qualche forma di dichiarazione anticipata il proprio “Testamento biologico”, non avrebbe alcuna garanzia che la sua volontà venisse rispettata. Se infatti avesse dichiarato di rinunciare a nutrizione e idratazione artificiali, una volta che si trovasse incapace di intendere e di volere, quei trattamenti sanitari (così definiti dalla comunità scientifica e dall’ordine dei medici) potrebbero venirgli imposti. Pertanto, la decisione su quel corpo e su quella vita (su quanto di comunque inestimabile resta di essa) verrebbe sottratta sia alla carità della “cura amorevole” sia al diritto all’autonomia del soggetto, e consegnata  al dispotismo etico di una legge di maggioranza. Qui sta il punto. Molti ritengono che su tali questioni meglio sarebbe non legiferare. E, infatti, troppo grossolana  è fatalmente  la scrittura della legge (di qualsiasi legge)  rispetto alla delicatezza e alla complessità e, ancor più, alla molteplicità delle concrete situazioni e patologie e condizioni problematiche  alle quali quella legge  dovrebbe applicarsi. Posizione da me non condivisa, eppure interessante. All’opposto sta la legge in discussione: di fronte al tremore di una scelta tragica, invece di assumerne la gravosa responsabilità (continuare o sospendere nutrizione e idratazione artificiali), si decide di estromettere la volontà del soggetto. E di  affidare la scelta, conseguentemente,  all’apparato biotecnologico. Ancora: se è vero come è vero che, dietro tutto ciò, si ripropone –irriducibile-  il conflitto tra carità e diritto, una legge buona è quella che assicura la fertilità della relazione tra quelle due categorie, senza che mai l’una prevarichi sull’altra, fino ad azzerarla. Al contrario, quelle due categorie devono, per quanto faticosamente,  convivere. E, infatti,“i valori potenzialmente in conflitto sono noti. Da un lato l’indisponibilità della vita, anche la mia, a ogni manomissione, e tanto più nelle sue situazioni di precarietà; dall’altro la libertà della persona che vive –e muore!- in questa indisponibilità”( Eugenio Mazzarella in“Vita politica valori” Guida 2010). Se carità e diritto interagiscono tra loro, si mettono in crisi vicendevolmente,  misurano la rispettiva fragilità, si avrà davvero esperienza umana. Che è anche rischio, errore, fallimento. Se si vuole evitare tutto questo, la soluzione è semplice: basta imporre per legge che, ad esempio, nutrizione e idratazione artificiali “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.”(Art. 3, comma 6). O, ancora meglio, decidere che quelle e altre dichiarazioni non siano vincolanti. Ma se è così, siamo in presenza di un’autentica impostura: nel momento in cui viene negata al soggetto la possibilità di esercitare l’auto-nomia, è il nomos dello Stato, ovvero l’autorità pubblica, che si impone. E si impone laddove più vulnerabile è l’identità della persona, più sofferente è la percezione dell’ esperienza estrema, più sensibile è la cognizione della propria finitezza. E’ così che si afferma la “bioetica di Stato”.
Il Foglio, 01-03-2011

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