Tra Obama e l'Italia
Un documentario da vedere per capire come è cambiato e cambierà il nostro paese
Luigi Manconi
Già alla fine degli anni ’90, nella città di New York la componente bianca e anglosassone era diventata minoranza, o era sul punto di diventarlo. Va da sé che, qualsiasi analisi sul voto americano, da lì dovrebbe partire:  la demografia come uno dei fondamenti della scienza politica e come strumento interpretativo non solo delle vicende elettorali, ma dell’intera storia di una nazione. Se si pensa a come le diverse etnie portano con sé – oltre ai propri sistemi di valori -  le proprie lingue, si potrà comprendere meglio dove cogliere  i mutamenti in atto. Consideriamo l’Italia. Nel corso di vent’anni, la popolazione straniera è passata dai 700/800mila dei primi ‘90 ai circa 5 milioni di oggi: ed è facilmente immaginabile da quali processi di trasformazione economico-sociale ciò discenda e quanti e quali ne produca. Quali mutamenti nelle relazioni interpersonali e nel senso comune: e nel linguaggio, nella cultura materiale, nell’immaginario. Per una singolare associazione, l’idea di quei flussi migratori negli Stati Uniti e nelle pieghe della provincia italiana, si è collegata alle immagini di un documentario strepitoso quale Terramatta (il dvd è ora in libreria, pubblicato da Cinecittà-Istituto Luce), che Costanza Quatriglio ha tratto dal libro di Vincenzo Rabito (Einaudi). Nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi (Ragusa), Rabito ha scritto un diario di oltre tremila pagine, in più quaderni legati con corda, nel quale ripercorre le vicende della sua vita: l'infanzia, la giovinezza durante la prima guerra mondiale, il fascismo, la partecipazione alla guerra d’Africa, il secondo conflitto mondiale, l’arrivo degli americani, la repubblica, il dopoguerra. Rabito è un analfabeta che legge e scrive. Conosce l’essenziale (“il libro dell’opera dei pupi della storia dei paladini di Francia” e “il libro del Guerino il meschino”) e racconta con la prorompente potenza di chi vuole farlo nonostante il dizionario, la grammatica, la sintassi. Ne viene fuori una lingua ricchissima, dove le trasfigurazioni dei vocaboli, pur gustosissime, non sono il principale motivo di interesse. Ciò che più colpisce è quel singolare processo di impossessamento della lingua, parlata e scritta, da parte di chi, nell’usarla, la trasforma e la deforma, la fa esplodere e la ricostruisce a suo uso e consumo, la reinventa e la traduce in dialetto siciliano per poi trasferirla, ancora, dal siciliano all’italiano. Partendo da quel testo, Costanza Quatriglio compie un’operazione audace e vince la sfida, combinando con grande intelligenza tre piani linguistici: quello del documentario che, come in altri lavori (penso a due opere diversissime: La nave dolce di Daniele Vicari e Come un uomo sulla terra di Andrea Segre), non tradisce alcun complesso di inferiorità nei confronti del lungometraggio. Qui il documentario perde qualunque tratto di mera riproduzione della realtà, diventando un mezzo per rivelare quanto sta dietro, sopra, sotto e davanti alla realtà stessa. Insomma, è come se né il cinema di finzione né quello di puro riflesso  o di “dimostrazione” (pedagogica), potessero offrire ciò che il linguaggio del documentario, che qui ricorre a fonti diverse e a diverse figure attoriali, consente di vedere. Non solo la realtà materiale, ma anche quella onirica e mentale e psichica. Non solo le immagini d’archivio, ma le idee che ispirano quelle immagini. Non solo le rappresentazioni imposte dai regimi e dalle classi dominanti, ma i pensieri di chi a quelle assiste. C’è una storia sociale e una dell’immaginario, che Terramatta propone in una felice combinazione. E poi ci sono altri due piani linguistici: quello della scrittura di Rabito come protagonista, ma anche oggetto del racconto, e quello del narratore che dispone la vicenda individuale all’interno della storia nazionale, dando un tono epico, proprio di ogni narrazione che voglia farsi memoria comune e sentimento condiviso. Entrambi i registri linguistici, dissonanti tra loro e dissonanti rispetto alla lingua nazionale, non sono proposti come alternativi sul piano culturale o su quello politico. Il libro di Rabito e il documentario della Quatriglio, non rappresentano “la storia degli ultimi” contrapposta alla storia dei potenti, e nemmeno una sorta di storia locale contro quella nazionale. Troppo facile, perché – in tal caso – si avrebbero due corpus alternativi e due canoni antagonistici. Qui si ha, piuttosto, una molteplicità di punti di vista che si avvicendano, offrendo una pluralità di letture possibili. L’assunto di partenza è ancora quello classico di  Nietzsche ("non esistono fatti puri, ma solo interpretazioni”), ma sembra evidenziarsi anche uno dei nodi del dibattito filosofico contemporaneo: quella differenza tra realtà e reale, sulla quale lavora, tra gli altri, Massimo Recalcati (“Se la realtà è una continuità, il reale è la rottura di questa continuità”). E, tuttavia, in questa combinazione di piani del linguaggio, Rabito svolge sempre un ruolo decisivo perché è sempre lui a nominare le cose. Non lo fa da padrone della lingua, ma da folle correttore di bozze, da indisciplinato revisore, da sregolato traduttore. Non afferma, cioè, un diritto di proprietà, bensì una sorta di comodato d’uso, su quella lingua che così magnificamente tratta e maltratta, da vero “inalfabeta”.
il Foglio 13 novembre 2012
Tra Obama e l'Italia
Un documentario da vedere per capire come è cambiato e cambierà il nostro paese
Luigi Manconi
Già alla fine degli anni ’90, nella città di New York la componente bianca e anglosassone era diventata minoranza, o era sul punto di diventarlo. Va da sé che, qualsiasi analisi sul voto americano, da lì dovrebbe partire:  la demografia come uno dei fondamenti della scienza politica e come strumento interpretativo non solo delle vicende elettorali, ma dell’intera storia di una nazione. Se si pensa a come le diverse etnie portano con sé – oltre ai propri sistemi di valori -  le proprie lingue, si potrà comprendere meglio dove cogliere  i mutamenti in atto. Consideriamo l’Italia.
Nel corso di vent’anni, la popolazione straniera è passata dai 700/800mila dei primi ‘90 ai circa 5 milioni di oggi: ed è facilmente immaginabile da quali processi di trasformazione economico-sociale ciò discenda e quanti e quali ne produca. Quali mutamenti nelle relazioni interpersonali e nel senso comune: e nel linguaggio, nella cultura materiale, nell’immaginario. Per una singolare associazione, l’idea di quei flussi migratori negli Stati Uniti e nelle pieghe della provincia italiana, si è collegata alle immagini di un documentario strepitoso quale Terramatta (il dvd è ora in libreria, pubblicato da Cinecittà-Istituto Luce), che Costanza Quatriglio ha tratto dal libro di Vincenzo Rabito (Einaudi). Nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi (Ragusa), Rabito ha scritto un diario di oltre tremila pagine, in più quaderni legati con corda, nel quale ripercorre le vicende della sua vita: l'infanzia, la giovinezza durante la prima guerra mondiale, il fascismo, la partecipazione alla guerra d’Africa, il secondo conflitto mondiale, l’arrivo degli americani, la repubblica, il dopoguerra. Rabito è un analfabeta che legge e scrive. Conosce l’essenziale (“il libro dell’opera dei pupi della storia dei paladini di Francia” e “il libro del Guerino il meschino”) e racconta con la prorompente potenza di chi vuole farlo nonostante il dizionario, la grammatica, la sintassi. Ne viene fuori una lingua ricchissima, dove le trasfigurazioni dei vocaboli, pur gustosissime, non sono il principale motivo di interesse. Ciò che più colpisce è quel singolare processo di impossessamento della lingua, parlata e scritta, da parte di chi, nell’usarla, la trasforma e la deforma, la fa esplodere e la ricostruisce a suo uso e consumo, la reinventa e la traduce in dialetto siciliano per poi trasferirla, ancora, dal siciliano all’italiano. Partendo da quel testo, Costanza Quatriglio compie un’operazione audace e vince la sfida, combinando con grande intelligenza tre piani linguistici: quello del documentario che, come in altri lavori (penso a due opere diversissime: La nave dolce di Daniele Vicari e Come un uomo sulla terra di Andrea Segre), non tradisce alcun complesso di inferiorità nei confronti del lungometraggio. Qui il documentario perde qualunque tratto di mera riproduzione della realtà, diventando un mezzo per rivelare quanto sta dietro, sopra, sotto e davanti alla realtà stessa. Insomma, è come se né il cinema di finzione né quello di puro riflesso  o di “dimostrazione” (pedagogica), potessero offrire ciò che il linguaggio del documentario, che qui ricorre a fonti diverse e a diverse figure attoriali, consente di vedere. Non solo la realtà materiale, ma anche quella onirica e mentale e psichica. Non solo le immagini d’archivio, ma le idee che ispirano quelle immagini. Non solo le rappresentazioni imposte dai regimi e dalle classi dominanti, ma i pensieri di chi a quelle assiste. C’è una storia sociale e una dell’immaginario, che Terramatta propone in una felice combinazione. E poi ci sono altri due piani linguistici: quello della scrittura di Rabito come protagonista, ma anche oggetto del racconto, e quello del narratore che dispone la vicenda individuale all’interno della storia nazionale, dando un tono epico, proprio di ogni narrazione che voglia farsi memoria comune e sentimento condiviso. Entrambi i registri linguistici, dissonanti tra loro e dissonanti rispetto alla lingua nazionale, non sono proposti come alternativi sul piano culturale o su quello politico. Il libro di Rabito e il documentario della Quatriglio, non rappresentano “la storia degli ultimi” contrapposta alla storia dei potenti, e nemmeno una sorta di storia locale contro quella nazionale. Troppo facile, perché – in tal caso – si avrebbero due corpus alternativi e due canoni antagonistici. Qui si ha, piuttosto, una molteplicità di punti di vista che si avvicendano, offrendo una pluralità di letture possibili. L’assunto di partenza è ancora quello classico di  Nietzsche ("non esistono fatti puri, ma solo interpretazioni”), ma sembra evidenziarsi anche uno dei nodi del dibattito filosofico contemporaneo: quella differenza tra realtà e reale, sulla quale lavora, tra gli altri, Massimo Recalcati (“Se la realtà è una continuità, il reale è la rottura di questa continuità”). E, tuttavia, in questa combinazione di piani del linguaggio, Rabito svolge sempre un ruolo decisivo perché è sempre lui a nominare le cose. Non lo fa da padrone della lingua, ma da folle correttore di bozze, da indisciplinato revisore, da sregolato traduttore. Non afferma, cioè, un diritto di proprietà, bensì una sorta di comodato d’uso, su quella lingua che così magnificamente tratta e maltratta, da vero “inalfabeta”.
il Foglio 13 novembre 2012
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