Il Codice differente
Luigi Manconi

 

Quanto pesa, nel politico, la vita umana? Immigrazione, carceri e altro nei limiti del solo diritto
Non ho abbastanza tempo, purtroppo. E dire in poche righe ciò che intendo dire è forse un rischio. Ma ci provo, riservandomi di tornarci ancora. Il tema è uno e ineludibile. Qual è il peso della vita umana nella vita sociale degli esseri umani? E' questione eterna e sempre irrisolta. Sembrava smarrita nell'epoca del trionfo della tecnica, e nella fase in cui l'asserito realismo politico tende a precipitare in cazzeggio da politologia del CEPU. Parto da un mio modesto e personale punto di vista. Nel 1990, pubblicai un libro, Solidarietà, egoismo, nel quale proponevo quest'ultima categoria in termini di "utilitarismo sociale" per interpretare alcuni movimenti collettivi e certe forme dell'azione politica.

Da allora, il mio discorso pubblico si è spogliato completamente (ha cercato di spogliarsi completamente), nel trattare temi come immigrazione, detenzione, questioni di fine vita, di qualunque accento moralistico e solidaristico. E da allora provo a giocare tutte le analisi e le proposte politiche in termini di garanzie, diritti e riconoscimento giuridico, pur consapevole di come anche questo rischi la caduta retorica. Credo, tuttavia, che una soluzione possa esservi: il discorso morale va riferito esclusivamente al campo delle motivazioni dell'agire ("io faccio questo perché mosso da ragioni etiche o religiose o civili..."), non in quello dei programmi e dei progetti politici. In altre parole, guai a dire: bisogna cogliere i migranti o i richiedenti asilo per ragioni umanitarie o in nome della solidarietà o in base a valori di natura morale (sia essa religiosa o laica). Si dovrebbe provare - ed è impresa terribilmente difficile - ad argomentare l'accoglienza di migranti e richiedenti asilo in base a considerazioni di natura demografica, economica, sociale; e nel rispetto di convenzioni internazionali, carte, patti. Tutto ciò, a mio avviso, è ragionevole e tuttavia si scontra con due limiti assai ruvidi. Il primo: quelle argomentazioni sono controverse, opinabili, fallibili. Il secondo: quelle argomentazioni non sono all'altezza dell'assoluto della Tragedia, che le trascende anche quando sono intelligenti, fondate, efficaci. La Tragedia, cioè, è irriducibile ad argomentazioni razionali, siano ostili o favorevoli.
Ci sono circostanze, infatti, in cui il discrimine fra politica e morale entra in crisi. Circostanze in cui quella distinzione vacilla e la conseguente confusione  fra le due dimensioni - che è sempre faticosa, ma non necessariamente improduttiva - diventa ineludibile. Tanto che uno stillicidio di morti come quei 6-7 al giorno affogati nel Mare Mediterraneo dal 1988 al 2011, diventa all'improvviso - dopo esser stato tollerato per un quarto di secolo - intollerabile. In altre parole, è come se ci fosse una soglia di dissipazione dell'umano, superata la quale ogni operazione troppo sofisticata e troppo rigorosa di distinzione dei campi (e delle relative competenze e responsabilità) rischia di apparire un esercizio futile. Ne ho avuto la precisa sensazione ascoltando, nel corso della trasmissione televisiva Matrix (canale 5) due persone irreparabilmente diverse, il Sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini e il Vicedirettore di questo giornale, Alessandro Giuli, dire la stessa cosa. La stessa inappellabile e ineffabile e intrattabile cosa: ma poi ci sono i morti. Vale, pressoché negli stessi termini, per il dibattito diventato presto stucchevole su amnistia e indulto. Ma poi ci sono i morti (ovvero i prigionieri annichiliti, degradati, torturati). E cose simili, le leggo nell'editoriale di Alessandro Campi sul Messaggero di ieri e in due formidabili articoli di Massimo Adinolfi sull'Unità di giovedì e di sabato della scorsa settimana.  
Insomma, arrivati a un certo limite, l'interrogativo è questo: fino a che punto la politica può fondarsi su un codice differente da quello della morale? La questione, per lo meno sul piano logico, non è affatto complessa: esiste, da una parte, il linguaggio della politica, che è quello della decisione, del potere e del suo carattere diffuso e multiforme, un linguaggio che nasce e si alimenta nella sfera pubblica. Un luogo, questo, in cui - in una prospettiva realista e con uno sguardo pessimista - domina il perseguimento dell'utile. Un utile che si identifica nell'interesse del più forte e nella ragione di chi o cosa sul piano concreto riesce a dominare anche per mezzo della forza. Esiste poi, dall'altra parte, un codice della morale, che - per dirla in estrema sintesi - naturalmente appartiene all'"extra-politico", perché proprio di un foro interno: ovvero di quella capacità di distinguere bene e male che si forma in ciascun individuo. La tensione fra le due dimensioni si crea quando una eccede sull'altra, e allora ecco la ragione di quella domanda, che possiamo così riformulare: quanto pesa, nel politico, la vita umana? Quanto rileva, per quel codice che di per sé riguarderebbe la gestione, l'amministrazione, la decisione, la scelta per la collettività e nella collettività (sempre più spesso: esclusivamente dentro la collettività), il fattore più che mai umano della morte disumana? Nell'abisso dei mali o nell'abisso della privazione della libertà?
il Foglio 15 ottobre 2013

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