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Lavoro ai Fianchi
La logica delle sbarre
Luigi Manconi
“Chiudi tutti i cancelli le tue porte blindate
le tue braccia magre le tue celle frigorifere
chiudi le tue gambe bianche i mari rossi le finestre e
chiudi bene le tue frontiere
e non dirmi dei palazzi parlami delle tue galere”
Sono i versi iniziali di una canzone di Vasco Brondi, tratta dal suo cd Per ora noi la chiameremo felicità. Vasco Brondi – insieme a Virginiana Miller, Meg, Offlaga Disco Pax e John De Leo … - è la più interessante novità del panorama musicale nazionale: e certo l’intelligenza più vivace e colta. È giovane: aveva giusto un paio d’anni quando, nella seconda metà degli ’80, Annino Mele entrava in  carcere per rimanervi fino a oggi e chissà fino a quando. Quella di Mele è una esemplare storia criminale. Nato a Mamoiada (Nuoro) nel 1951, è pastore fin dall’infanzia. In carcere dal 1976 al 1980, viene nuovamente arrestato nel 1987 e condannato all’ergastolo per omicidio e sequestro di persona. Da allora non è più uscito di prigione. Qui ha scritto Il passo del disprezzo, Già Editrice 1996, con Valdimar Andrade Silva, Sos camminos della differenza, Sensibili alle foglie 2001, Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana, Sensibili alle foglie 2005; ha pubblicato ancora, con Efisio Cadoni La sorgente delle pietre rosse, Sensibili alle foglie 2007 e infine Sa grutta de sos mortos Delfino editore, 2009. Attualmente è detenuto nel carcere di Fossombrone. Da qui, come può, continua a mantenere un rapporto epistolare  con gli studenti del liceo di Meda, in Brianza, dove da anni si tiene un corso dedicato, tra l’altro, alla lettura critica dei suoi libri. Per quegli studenti Annino Mele è un insegnante e un tutor: per la Magistratura di Sorveglianza, invece, è persona tuttora scarsamente affidabile. Di conseguenza non merita di incontrare la propria madre, anziana e malata, che non vede da dieci anni. La logica del rifiuto di quella possibilità di incontro è chiara: perché Mele possa infine recarsi da sua madre, quest’ultima deve trovarsi in fin di vita. E, infatti nell'ultimo decreto di reiezione del Tribunale di Sorveglianza di Ancona relativo all'articolo 30 della legge sull'ordinamento penitenziario che disciplina i cosiddetti "permessi di necessità" si legge che la madre di Mele, "seppur affetta da varie patologie non versa in imminente pericolo di vita".
Ma proprio questo rivela l’atroce contraddizione di una certa idea della pena e del percorso di possibile riabilitazione del condannato. In quel percorso, i permessi o altri benefici (tanto più in un caso come questo) non sono regali discrezionalmente accordati o concessioni graziosamente elargite. Quei permessi sono, in primo luogo, altrettante opportunità finalizzate a consentire processi di integrazione e di socializzazione. Si tratta di una questione estremamente significativa che allude a una profonda divaricazione e, in ultima istanza, a un radicale conflitto tra differenti e opposte concezioni dell’esecuzione penale. Se il permesso per visitare un familiare viene concesso solo in caso di estrema e ultima necessità (“imminente pericolo di vita”), esso si configura al più come un atto compassionevole: una sorta di intervento umanitario. Qualcosa che, dunque, non contraddice la fissità e la rigidità della pena, ma finisce per immobilizzarla, riducendola a un dispositivo ferreo e immutabile, che non prevede cambiamento trasformazione metanoia. Se, al contrario, il permesso o un altro beneficio è una occasione di incontro e di comunicazione – di socializzazione, appunto – l’esecuzione della pena torna a essere ciò che la Costituzione prevede: un itinerario di maturazione e di emancipazione dalla condizione criminale. Ma in questo secondo caso, il permesso o un altro beneficio rappresentano altrettanti punti di un “programma di integrazione sociale”. E di quel programma, Mele, si è confermato mille volte meritevole, lungo un arco di tempo più che sufficiente a evidenziare l’incontrovertibile autenticità del suo cambiamento. Ciò è tanto più vero se si tiene presente che la possibilità di incontro e di comunicazione e di relazione, richiesta da Mele, riguarda la propria madre. Soggetto essenziale, va da sé, per ricostituire un sistema di rapporti che l’attività criminale e la lunga detenzione hanno brutalmente interrotto. Dovrebbe essere interesse di tutti -  di tutti – che quella interruzione non sia per sempre.
l'Unità 12 novembre 2010
Lavoro ai Fianchi
La logica delle sbarre
Luigi Manconi

“Chiudi tutti i cancelli le tue porte blindate
le tue braccia magre le tue celle frigorifere
chiudi le tue gambe bianche i mari rossi le finestre e
chiudi bene le tue frontiere
e non dirmi dei palazzi parlami delle tue galere”
Sono i versi iniziali di una canzone di Vasco Brondi, tratta dal suo cd Per ora noi la chiameremo felicità. Vasco Brondi – insieme a Virginiana Miller, Meg, Offlaga Disco Pax e John De Leo … - è la più interessante novità del panorama musicale nazionale: e certo l’intelligenza più vivace e colta. È giovane: aveva giusto un paio d’anni quando, nella seconda metà degli ’80, Annino Mele entrava in  carcere per rimanervi fino a oggi e chissà fino a quando. Quella di Mele è una esemplare storia criminale. Nato a Mamoiada (Nuoro) nel 1951, è pastore fin dall’infanzia. In carcere dal 1976 al 1980, viene nuovamente arrestato nel 1987 e condannato all’ergastolo per omicidio e sequestro di persona. Da allora non è più uscito di prigione. Qui ha scritto Il passo del disprezzo, Già Editrice 1996, con Valdimar Andrade Silva, Sos camminos della differenza, Sensibili alle foglie 2001, Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana, Sensibili alle foglie 2005; ha pubblicato ancora, con Efisio Cadoni La sorgente delle pietre rosse, Sensibili alle foglie 2007 e infine Sa grutta de sos mortos Delfino editore, 2009. Attualmente è detenuto nel carcere di Fossombrone. Da qui, come può, continua a mantenere un rapporto epistolare  con gli studenti del liceo di Meda, in Brianza, dove da anni si tiene un corso dedicato, tra l’altro, alla lettura critica dei suoi libri. Per quegli studenti Annino Mele è un insegnante e un tutor: per la Magistratura di Sorveglianza, invece, è persona tuttora scarsamente affidabile. Di conseguenza non merita di incontrare la propria madre, anziana e malata, che non vede da dieci anni. La logica del rifiuto di quella possibilità di incontro è chiara: perché Mele possa infine recarsi da sua madre, quest’ultima deve trovarsi in fin di vita. E, infatti nell'ultimo decreto di reiezione del Tribunale di Sorveglianza di Ancona relativo all'articolo 30 della legge sull'ordinamento penitenziario che disciplina i cosiddetti "permessi di necessità" si legge che la madre di Mele, "seppur affetta da varie patologie non versa in imminente pericolo di vita".
Ma proprio questo rivela l’atroce contraddizione di una certa idea della pena e del percorso di possibile riabilitazione del condannato. In quel percorso, i permessi o altri benefici (tanto più in un caso come questo) non sono regali discrezionalmente accordati o concessioni graziosamente elargite. Quei permessi sono, in primo luogo, altrettante opportunità finalizzate a consentire processi di integrazione e di socializzazione. Si tratta di una questione estremamente significativa che allude a una profonda divaricazione e, in ultima istanza, a un radicale conflitto tra differenti e opposte concezioni dell’esecuzione penale. Se il permesso per visitare un familiare viene concesso solo in caso di estrema e ultima necessità (“imminente pericolo di vita”), esso si configura al più come un atto compassionevole: una sorta di intervento umanitario. Qualcosa che, dunque, non contraddice la fissità e la rigidità della pena, ma finisce per immobilizzarla, riducendola a un dispositivo ferreo e immutabile, che non prevede cambiamento trasformazione metanoia. Se, al contrario, il permesso o un altro beneficio è una occasione di incontro e di comunicazione – di socializzazione, appunto – l’esecuzione della pena torna a essere ciò che la Costituzione prevede: un itinerario di maturazione e di emancipazione dalla condizione criminale. Ma in questo secondo caso, il permesso o un altro beneficio rappresentano altrettanti punti di un “programma di integrazione sociale”. E di quel programma, Mele, si è confermato mille volte meritevole, lungo un arco di tempo più che sufficiente a evidenziare l’incontrovertibile autenticità del suo cambiamento. Ciò è tanto più vero se si tiene presente che la possibilità di incontro e di comunicazione e di relazione, richiesta da Mele, riguarda la propria madre. Soggetto essenziale, va da sé, per ricostituire un sistema di rapporti che l’attività criminale e la lunga detenzione hanno brutalmente interrotto. Dovrebbe essere interesse di tutti -  di tutti – che quella interruzione non sia per sempre.
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Commenti (3)
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