"Terra di transito", questo non è un paese per migranti
In concorso al Bif&st, il Festival internazionale del film di Bari, il documentario di Paolo Martino sull'odissea dei profughi che il regolamento di Dublino obbliga a rimanere in un paese senza accoglienza né prospettive. Il viaggio di Rahell, fuggito dalla Siria, attraverso le testimonianze di chi spera di ricominciare
ALESSANDRA VITALI
BARI - "Se mi avessero ucciso in Afghanistan sarei stato fortunato, perché qui muoio ogni giorno". Morire ogni giorno signifca arrivare in un paese "dove pensavo di trovare più diritti", ottenere asilo, finire in strada "senza un alloggio, la possibilità di lavorare, un aiuto".
Una vita fatta di accattonaggio, dormitori, prigione, attesa infinita di andare via, altrove, ovunque purché via dall'Italia. Perché l'Italia "è un disastro, è la discarica dell'Europa" per gli immigrati che fuggono dalle guerre ma, una volta arrivati nel nostro paese, si trovano a combattere un'altra guerra, quotidiana, contro la burocrazia, l'assenza di strutture, i pregiudizi.

I giovani uomini fuggiti dall'Afghanistan, dall'Iraq, dalla Siria lo raccontano in Terra di transito, il docufilm di Paolo Martino presentato in concorso nella sezione Documentari al Bif&st, il festival internazionale del film di Bari in corso fino al 12 aprile. Prodotto dall'associazione "A buon diritto" con Luce-Cinecittà, con il patrocinio della sezione italiana di Amnesty International, Terra di transito affronta il tema delle migrazioni in Italia e in Europa a partire dal racconto di Rahell Ali Mohamed, rifugiato bambino dall'Iraq in Siria e poi costretto ad abbandonare anche la sua seconda terra.
Senza visti né passaporto, Rahell è arrivato in Italia da dove spera di raggiungere la Svezia per ricongiungersi con i suoi familiari. Ma allo sbarco scopre che a dividerlo dalla sua meta c'è il regolamento di Dublino adottato nel 2003, quello cioè che mira "a determinare con rapidità lo Stato membro competente per una domanda di asilo e prevede il trasferimento di un richiedente asilo in tale Stato membro". E lo Stato membro competente all'esame della domanda di asilo è quello in cui il richiedente ha messo piede per la prima volta nell'Ue. In sostanza, il regolamento impone al rifugiato di risiedere nel primo paese d'ingresso in Europa. Nel caso dell'Italia - questo vuole mostrare il documentario - un paese incapace di accogliere e garantire un percorso di vita autonomo alle persone che protegge. Per Rahell, ogni tentativo di espatrio verso la meta desiderata si trasforma in un rinvio nel nostro Paese, quello cioè che detiene la competenza della sua pratica.
"Il nostro obiettivo era mettere a confronto l'Italia con le grandi socialdemocrazie del Nordeuropa, abbiamo scelto un centro d'accoglienza di Roma ma senza specificare di quale si tratti, è solo emblematico delle vicende dei migranti che arrivano qui - spiega il regista Palo Martino, reporter e documentarista - siamo abitati a concepire l'Italia come una terra d'approdo in cui migliaia di persone arrivano per realizzare un sogno e invece si scontrano con Dublino 2 che inchioda i richiedenti asilo a un sistema legale assurdo in base al quale l'Italia diventa una prigione a cielo aperto. Benché investito da un fenomeno imponente, il nostro Paese non si è mai guardato allo specchio e non ha capito che ormai siamo un paese d'immigrazione e stiamo perdendo risorse, l'immigrazione è una risorsa della quale dovremmo arricchirci invece tanti migranti se ne vanno verso i Paesi del Nordeuropa. Un discorso - conclude Matino - che può essere applicato trasversalmente a un'intera generazione, giovani migranti e stanziali italiani che si trovano a vivere lo stesso problema, abbandonare questo Paese".
Nel film ci sono tanti racconti di odissee personali, sullo sfondo c'è la Roma degli invisibili, quella ad esempio della stazione Ostiense dove, dietro alle luci e ai profumi di Eataly si incrociano le vite di chi aspetta. "In Svizzera ogni settimana ti danno 260 franchi - dice un ragazzo - un alloggio, c'è la doccia, ci sono i servizi, ti danno vestiti nuovi. In Italia niente, mangiamo quello che ci passano i volontari". C'è quello arrivato a Lampedusa, "eravamo in centotrenta su una barca di legno, tre giorni e tre notti di navigazione senza cibo né acqua, non abbiamo ricevuto né accoglienza né aiuto. Io vado in Francia". Poi c'è anche chi organizza i viaggi verso l'"altrove", la Svezia, la Finlandia, la Norvegia. Si passa per Milano poi si va verso Bolzano, da Bolzano alla Germania e di lì a Copenhagen, "poi ti sposti dove ti pare". Il viaggio dura 22 ore, costa dai 1800 ai 2000 euro. I soldi vengono consegnati a un garante che, arrivati a destinazione, li dà al trafficante che consegna una quota all'autista. "In altri Paesi -  dice un altro ragazzo - esiste un ufficio del lavoro, qui possono darti solo documenti". Che a volte servono a poco, se è vero quel che racconta un altro migrante, "sembra una barzelletta ma una sera alla stazione Termini un poliziotto mi ha chiesto il docmento, quando gliel'ho dato mi ha detto che non sapeva che cosa fosse, gli ho risposto 'ma me l'avete dato voi'".
All'anteprima al Bif&st ci sono anche, per l'associazione "A buon diritto", Valentina Calderone, che con Valentina Brinis tiene le fila, a Roma, di tre sportelli legali con una ventina d'avvocati e una presenza settimanale al Cie di Ponte Galeria, e Luigi Manconi, che ricorda le cifre: "Nel nostro Paese il numero dei rifugiati è intorno alle 90 mila unità, in Francia sono oltre 250 mila, in Germania più di mezzo milione. Sulla base di questi dati e dunque dell'avarizia dell'Italia nell'accogliere un numero maggiore di profughi - dice Manconi - ma soprattutto nel fornire loro un'accoglienza degna di questo nome, è ovvio che la nostra autorevolezza nel chiedere aiuto all'Europa è piccola, modesta. Speriamo che il semestre europeo a guida italiana possa rappresentare un'opportunità in questo senso".
Il viaggio di Rahell nella città dei migranti attraversa dormitori a cielo aperto e casermoni con le brande attaccate una all'altra, serate d'inverno senza riscaldamento a giocare a carte ascoltando musica dei paesi d'origine e cene portate dai volontari. E esperienze, come quelle della cella. "Non ero mai stato in prigione - racconta lo stesso Rahell  -  finché non sono arrivato in Europa. Non avevo idea di cosa si provasse, l'ho saputo solo quando sono arrivato in un posto dove credevo di trovare più diritti. Alla fine arrivi a un punto in cui non contano più le ragioni della partenza, sia che fossero forti, sia che fossero deboli".
Dopo l'anteprima al festival di Bari, Terra di transito uscirà nelle sale italiane, con un progetto di proiezioni e incontri promosso da Luce-Cinecittà insieme a "A buon diritto".
la Repubblica.it, 11-04-2014

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