Politicamente correttissimo
Scene per un finale
Il rito di “forza gnocca” conferma: “una volta uscito di scena il Capo, non ci sarebbe stato più romanzo”.
Luigi Manconi
La scena è di quelle che, nelle discipline della psiche, vengono definite “primarie”. Perché rimandano ad un archetipo e, nel loro ripetersi, rappresentano un rito; e perché svolgono una funzione essenziale di integrazione del gruppo, di fidelizzazione dei suoi membri e di conferma della sua gerarchia interna. Ecco, dunque, un gruppo di uomini adulti, alcuni di età avanzata (rarissime le donne), in una situazione di promiscuità eccitata e un po’ sudaticcia, che si assiepano intorno al capobranco e ne assecondano e ne esaltano gli umori .E, se il capobranco si esibisce in una lepidezza, eccoli scompisciarsi senza più freni inibitori. E’ la sede ideale, quella, per elaborare gli slogan che producono un linguaggio condiviso e rafforzano lo spirito di comunità. Ed è qui fatalmente - nell’aula della Camera dei deputati- che era destinata a nascere “Forza gnocca”: non un nuovo partito, ovviamente, ma la parola d’ordine e il codice  di riconoscimento di una tribù maschile che, come tutte le tribù maschili, non si rassegna a invecchiare. Paolo Conte, quand’era bravo (c’è stato un tempo in cui Paolo Conte era baravo, molto bravo), aveva raccontato quel rito con grande efficacia: “Ci sono certi nodi di cravatta/che dietro c’è la mano di una moglie/ ma dietro ad ogni moglie c’è una amante senza mutande./Nel gruppo manca mai qualche avvocato/a lui tocca di fare il bel discorso/la faccia sua collerica si accende e ci confonde… /Sparito sembra poi da qualche viso /lo stesso proprietario - dov’è andato? /Ma poi di colpo, complice un sorriso, indietro torna dal paradiso/Le facce rosse rosse, ormai si canta /a squarciagola senza intonazione /nessuno sentirà chi si è perduto in mezzo al brindisi gridando aiuto” (1975).
Quella scena nell’aula della Camera offre il destro per un ulteriore ragionamento. Due tra i più autorevoli intellettuali di centrodestra, Giuliano Ferrara e Vittorio Feltri, l’hanno trattata con divertita degnazione, così confermando un cattivissimo pensiero che la loro prosa apologetica tende a suggerire. La loro tesi difensiva, se ci fate caso, pur argomentata in maniera profondamente diversa, discende dal medesimo dispositivo concettuale. Esso si basa sulla rinuncia alla richiesta di attenuanti per Berlusconi e sull’esaltazione, piuttosto, dei suoi difetti e responsabilità e perfino colpe. E proprio perché questi tratti costituiscono (colpe comprese) la componente essenziale di una grandezza nonostante tutto provvidenziale. Insomma, solo l’arcitaliano Berlusconi, con le sue arcivirtù, speculari ai suoi arcidifetti, avrebbe potuto, e forse ancora può, salvare l’Italia (nell’ordine, da: il politically correct e il cattocomunismo, lo statalismo e l’assistenzialismo, Roberto Benigni e Roberto Vecchioni, Enzo Bianchi e Barbara Spinelli, le droghe leggere e il pensiero debole, l’antifascismo e i fratelli Cervi,l’azionismo e i fratelli Rosselli e i fratelli Zagrebelsky… ). In altre parole, ammiccano Ferrara e Feltri, il premier è burino e incontinente, eccessivo e scomposto, pasticcione e inconcludente. Ma è meglio di tutti gli altri messi insieme e, se solo ci desse un po’ retta, avrebbe ancora qualche buona carta da giocare. Insomma, siamo alle solite: un complesso di superiorità grande come una casa sembra ispirare Ferrara e Feltri. Una supponenza mal celata e l’idea, sempre quella, che spetti agli intellettuali ( e a quelli più militanti:i giornalisti, appunto) il ruolo di consiglieri del principe: a partire dal presupposto di una propria indiscussa superiorità ( che è poi, ne converrete, lo stesso meccanismo del rapporto d’amore). In alternativa, se il principe appare malfermo, c’è il ruolo di badanti e a questo sembrano dedicarsi, oggi, Ferrara e Feltri. Sfugge che, probabilmente, al loro assistito –lo si dica con il massimo rispetto-  gli è partita la brocca. Ora, il rischio è che questo finale un po’ grottesco si dipani attraverso sequenze sempre più grigie e spente. In tre o quattro siamo arrivati a confidarcelo: svegliarsi la notte, madidi di sudore urlando: No, Scajola no. E’ arrivato il momento di rendere il dovuto omaggio a Nanni Moretti:il finale del suo Caimano è cento volte più intelligente. E degno. D’altra parte, sappiamo bene che la cultura italiana non è stata in grado di produrre l’equivalente di ciò che ha rappresentato, per gli Stati Uniti, Pastorale Americana di Philip Roth o Rumore Bianco di Don DeLillo(o decine di altri fantastici romanzi). Eccoci qui, pertanto a dover dar ragione a Paolo di Paolo quando scrive: "Una volta uscito di scena il Capo, non ci sarebbe stato più romanzo. Il romanzo, per vent'anni, era stato lui. Il grande romanzo che nessuno scrittore italiano era riuscito a scrivere. Il più brillante, il più avventuroso, il più imprevedibile, ingombrante e originale romanzo che si potesse immaginare. Il più inutile come tutti i grandi romanzi. Il più pericoloso.Com'è che si chiamava, la sua biografia? Una storia italiana." (Dov’eravate tutti, Feltrinelli 2011). Scrivere il finale del racconto, d’altra parte, è sempre stata l’impresa più tormentata.
il Foglio 11 ottobre 2011
Politicamente correttissimo
Scene per un finale
Il rito di “forza gnocca” conferma: “una volta uscito di scena il Capo, non ci sarebbe stato più romanzo”.
Luigi Manconi
La scena è di quelle che, nelle discipline della psiche, vengono definite “primarie”.
Perché rimandano ad un archetipo e, nel loro ripetersi, rappresentano un rito; e perché svolgono una funzione essenziale di integrazione del gruppo, di fidelizzazione dei suoi membri e di conferma della sua gerarchia interna. Ecco, dunque, un gruppo di uomini adulti, alcuni di età avanzata (rarissime le donne), in una situazione di promiscuità eccitata e un po’ sudaticcia, che si assiepano intorno al capobranco e ne assecondano e ne esaltano gli umori .E, se il capobranco si esibisce in una lepidezza, eccoli scompisciarsi senza più freni inibitori. E’ la sede ideale, quella, per elaborare gli slogan che producono un linguaggio condiviso e rafforzano lo spirito di comunità. Ed è qui fatalmente - nell’aula della Camera dei deputati- che era destinata a nascere “Forza gnocca”: non un nuovo partito, ovviamente, ma la parola d’ordine e il codice  di riconoscimento di una tribù maschile che, come tutte le tribù maschili, non si rassegna a invecchiare. Paolo Conte, quand’era bravo (c’è stato un tempo in cui Paolo Conte era baravo, molto bravo), aveva raccontato quel rito con grande efficacia: “Ci sono certi nodi di cravatta/che dietro c’è la mano di una moglie/ ma dietro ad ogni moglie c’è una amante senza mutande./Nel gruppo manca mai qualche avvocato/a lui tocca di fare il bel discorso/la faccia sua collerica si accende e ci confonde… /Sparito sembra poi da qualche viso /lo stesso proprietario - dov’è andato? /Ma poi di colpo, complice un sorriso, indietro torna dal paradiso/Le facce rosse rosse, ormai si canta /a squarciagola senza intonazione /nessuno sentirà chi si è perduto in mezzo al brindisi gridando aiuto” (1975).
Quella scena nell’aula della Camera offre il destro per un ulteriore ragionamento. Due tra i più autorevoli intellettuali di centrodestra, Giuliano Ferrara e Vittorio Feltri, l’hanno trattata con divertita degnazione, così confermando un cattivissimo pensiero che la loro prosa apologetica tende a suggerire. La loro tesi difensiva, se ci fate caso, pur argomentata in maniera profondamente diversa, discende dal medesimo dispositivo concettuale. Esso si basa sulla rinuncia alla richiesta di attenuanti per Berlusconi e sull’esaltazione, piuttosto, dei suoi difetti e responsabilità e perfino colpe. E proprio perché questi tratti costituiscono (colpe comprese) la componente essenziale di una grandezza nonostante tutto provvidenziale. Insomma, solo l’arcitaliano Berlusconi, con le sue arcivirtù, speculari ai suoi arcidifetti, avrebbe potuto, e forse ancora può, salvare l’Italia (nell’ordine, da: il politically correct e il cattocomunismo, lo statalismo e l’assistenzialismo, Roberto Benigni e Roberto Vecchioni, Enzo Bianchi e Barbara Spinelli, le droghe leggere e il pensiero debole, l’antifascismo e i fratelli Cervi,l’azionismo e i fratelli Rosselli e i fratelli Zagrebelsky… ). In altre parole, ammiccano Ferrara e Feltri, il premier è burino e incontinente, eccessivo e scomposto, pasticcione e inconcludente. Ma è meglio di tutti gli altri messi insieme e, se solo ci desse un po’ retta, avrebbe ancora qualche buona carta da giocare. Insomma, siamo alle solite: un complesso di superiorità grande come una casa sembra ispirare Ferrara e Feltri. Una supponenza mal celata e l’idea, sempre quella, che spetti agli intellettuali ( e a quelli più militanti:i giornalisti, appunto) il ruolo di consiglieri del principe: a partire dal presupposto di una propria indiscussa superiorità ( che è poi, ne converrete, lo stesso meccanismo del rapporto d’amore). In alternativa, se il principe appare malfermo, c’è il ruolo di badanti e a questo sembrano dedicarsi, oggi, Ferrara e Feltri. Sfugge che, probabilmente, al loro assistito –lo si dica con il massimo rispetto-  gli è partita la brocca. Ora, il rischio è che questo finale un po’ grottesco si dipani attraverso sequenze sempre più grigie e spente. In tre o quattro siamo arrivati a confidarcelo: svegliarsi la notte, madidi di sudore urlando: No, Scajola no. E’ arrivato il momento di rendere il dovuto omaggio a Nanni Moretti:il finale del suo Caimano è cento volte più intelligente. E degno. D’altra parte, sappiamo bene che la cultura italiana non è stata in grado di produrre l’equivalente di ciò che ha rappresentato, per gli Stati Uniti, Pastorale Americana di Philip Roth o Rumore Bianco di Don DeLillo(o decine di altri fantastici romanzi). Eccoci qui, pertanto a dover dar ragione a Paolo di Paolo quando scrive: "Una volta uscito di scena il Capo, non ci sarebbe stato più romanzo. Il romanzo, per vent'anni, era stato lui. Il grande romanzo che nessuno scrittore italiano era riuscito a scrivere. Il più brillante, il più avventuroso, il più imprevedibile, ingombrante e originale romanzo che si potesse immaginare. Il più inutile come tutti i grandi romanzi. Il più pericoloso.Com'è che si chiamava, la sua biografia? Una storia italiana." (Dov’eravate tutti, Feltrinelli 2011). Scrivere il finale del racconto, d’altra parte, è sempre stata l’impresa più tormentata.

il Foglio 11 ottobre 2011
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