Travaglio ha bisogno di qualcuno che lo liberi dalla sindrome di Gustavo
Luigi Manconi
Possibile che nessuno voglia bene a Marco Travaglio? Almeno un po’ di bene, intendo. Insomma, alle persone potenti e ricche, può capitare di perdere l'autocontrollo e che l’equilibrio vada a farsi benedire (Silvio Berlusconi ne è l’esempio massimo, ma anche Beppe Grillo non scherza mica). Ed è in quei momenti che deve intervenire qualcuno che davvero voglia bene e avverta solleciti accudisca. Palesemente, questo non accade con Marco Travaglio (e nemmeno con Berlusconi e Grillo). È allora che può manifestarsi la “sindrome di Gustavo”. Agli inizi del ‘900, un gruppo di antropologi canadesi, nel corso di una ricerca etnografica in una comunità dell’Africa profonda, scoprì un singolare fenomeno. I nativi, soggetti a una condizione di particolare sottosviluppo, si imbattevano in superfici capaci di rifletterne l’immagine. Un vetro, una polla d’acqua, un materiale lavorato, offrivano la possibilità di vedervi proiettata la propria figura. Ma, tale facoltà, veniva vissuta più come sdoppiamento che come riflesso.
Chi guardava lo “specchio” e vi trovava riprodotto un difetto o una minaccia, si scagliava contro l’immagine che raffigurava quell’insidia, per distruggerla. In altre parole, quel difetto o quella minaccia, (un atteggiamento aggressivo o un'arma brandita o un tratto ripugnante) non appartenevano più a chi si specchiava ma a un altro, esterno ed estraneo, che diventava il nemico e, di conseguenza, il bersaglio. Ecco, la “sindrome di Gustavo” (dal nome del nativo che più sembrava soffrirne) colpisce oggi Travaglio. Già mi è capitato di notare quanto si sia adontato del fatto che tra i moltissimi che visitano il suo sito (una moltitudine: beato lui), sono tanti coloro che lo insultano, travisano quanto egli scrive e attribuiscono le opinioni non condivise al fatto che sia, sostanzialmente, un manutengolo di Berlusconi. Così Travaglio: "l’idea che io possa pensare liberamente quel cazzo che voglio senza che nessuno me lo ordini, nemmeno li sfiora (...). Altri pretendono addirittura di dirmi quello che devo scrivere, e quando, e con quali parole: e se non lo faccio subito sono un venduto, un servo eccetera". A Travaglio, indignato per tanta ottusità, sfugge il fatto che quei suoi simpatici interlocutori adottino esattamente il metodo adottato da lui stesso da vent'anni, e che quell'onda limacciosa che lo sfiora è propriamente - e letteralmente: parola per parola - l'esito di un dispositivo culturale al quale egli ha contribuito potentemente. E continua a contribuire: nelle ultime settimane la sua prosa, eccitata dalle più recenti vicende politiche, si è accesa in una girandola di "coglioni", "imbecilli", "dementi", e così via. Ma la sindrome di Gustavo (l'attribuzione ad altri delle proprie stesse perversioni), tende fatalmente a riprodursi e ad affinarsi. Ed ecco ancora Travaglio accusare il direttore dell'Unità, Claudio Sardo, di aver pubblicato "una notizia falsa a tutta prima pagina: Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento". Mancherebbe in quella prima pagina "qualsiasi appiglio fattuale che suffraghi quel titolo sul 'patto'. Beppe e Silvio si saranno incontrati? Incrociati per caso? Parlati al telefono o per via telepatica? Nulla di tutto questo. (...) E allora di quale 'patto Grillo-Berlusconi' parla l'Unità?" (l'Espresso 4 aprile 2013).
Par di sognare. E si resta incantati davanti allo straordinario candore di tanta improntitudine. Travaglio, e tutti i travaglisti-leninisti hanno costruito, proprio su quel paradigma del "patto oggettivo" un'intera letteratura criminale, un'infinita leggenda nera, un cupo senso comune, che ha tradotto la mediocre perfidia cattolica di Andreotti ("a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca") in un supremo principio di verità e nella caricatura di una sorta di spirito pubblico. E che ha fatto di un tetro avverbio staliniano (oggettivamente) una nevrotica ermeneutica per leggere le relazioni sociali e, tanto più, quelle politiche e istituzionali. A simili critiche, Travaglio, non è aduso replicare; e quando decide di polemizzare con me, ricorre a due argomenti che ritiene irresistibili: le mie malefatte di quarant'anni fa (sì, proprio del '71-72) e il mio sostegno, con motivazioni politiche e sociali e con argomentazioni scientifiche (pubblicate su riviste specialistiche) al provvedimento di Indulto del 2006. Rispetto alla prima imputazione, posso serenamente impipparmene e fare spallucce, dal momento che - ben prima che Travaglio me la rivolgesse - ne avevo fatto pubblica ammenda e ne avevo pagato lo scotto penale e politico. Della seconda accusa, evidentemente mi glorio anche se non posso pretendere che il fine giureconsulto Travaglio ne possa cogliere le ragioni (ma sono in grado di fornire acconcia bibliografia). Infine, ciò che più sorprende è altro. Qui, noi si sta ad arrabattarci, e da alcuni decenni, su cruciali questioni di giustizia: dal problema dei centri di identificazione e di espulsione alle campagne per la verità sulla morte di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Franco Mastrogiovanni, Michele Ferrulli, Dino Budroni e altri ancora. E sulla reclusione iniqua di tanti poveri cristi e, quando accade (perché accade anche questo), di quei privilegiati che finiscono in carcere e qui vengono "resi uguali" agli spossessati di tutto; ma anche su quei 5-6 morti al giorno tra i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane. Ci fosse uno tra i "tutori della legalità", da Travaglio ai travaglisti-leninisti, che trovi il tempo e l'energia per mobilitarsi su quelle tragedie, oltre che contro "le larghe intese". Il problema vero è che, dietro tutto ciò, emerge un'autentica catastrofe culturale: ovvero il fatto che numerosi militanti di sinistra sembrano "infuocarsi, le espressioni arrabbiate, dando fuoco alle tessere e occupando le sezioni" (Ritanna Armeni) solo ed esclusivamente contro la candidatura di Franco Marini. Ah, se almeno una qualche parte di tanta "indignazione" venisse investita - invece che contro il fantasma paranoico di quella parola sporcacciona ("inciucio") - nella lotta contro le ingiustizie. Non sarebbe una bella roba di sinistra?
P.S. Dalle parole di Travaglio emerge una crescente gerontofobia. La qual cosa, oltre a esprimere un sentimento schiettamente reazionario, risulta singolare per uno che viaggia intorno ai 50. Non lo sa, Travaglio, che dopo i trentacinque anni, secondo Thomas Bernhard, siamo tutti uguali?
il Foglio 24 aprile 2013