Politicamente correttissimo
Psico-Alemanno
La “sindrome dello zio assente” e le nevrosi della politica, perché i leader da soli combinano guai.
Luigi Manconi
Quindici anni fa, nel pieno di una vita personale, per così dire, non propriamente morigerata, volli scrivere un “elogio della castità” in difesa di Roberto Formigoni. La privatissima scelta di quest’ultimo era fatta oggetto di dileggio, quasi che l’opzione opposta –in uno spettro che va dalla sessualità monogamica al libertinaggio- fosse di per sé superiore. Questo per dire come non nutrissi in passato alcun pregiudizio nei confronti del presidente della Regione Lombardia, oggi palesemente affetto da quella che chiamerei “sindrome dello zio assente”. È la stessa che ha colpito Gianni Alemanno. Appare evidente, infatti, anche agli osservatori più obiettivi (e io non sono certo tra questi), che il sindaco di Roma ha vissuto, nelle ultime due settimane, una sorta di delirio. In altre parole, il disastro e il ridicolo gli hanno fatto perdere l’autocontrollo: e di conseguenza tutte le sue mosse e le sue parole sono state l’espressione di una tendenza parossistica, che si avvitava su sé stessa, in una spirale nella quale affondava sempre più goffamente. E sempre più solo (per giorni e giorni, accanto al sindaco non si è appalesato un solo collaboratore, un solo tecnico di fiducia, un solo assessore). D’altra parte, Alemanno parla un italiano basico e incolore, totalmente inadeguato ai tempi di emergenza e alla necessità di mobilitare le energie collettive. Ma soprattutto ha colpito quell’intestardirsi e incaponirsi: un atteggiamento così tetragono da apparire più una manifestazione ossessivo-compulsiva che una scelta politica. E questo solleva un interrogativo. Non sarebbe stato forse meglio, per Alemanno, adottare una linea più duttile, ammettere gli errori, distribuire equamente le responsabilità assumendosene una parte? Ma qui si vede bene come  la teoria dei giochi, che aiuta a spiegare l’azione pubblica,possa risultare fallace. Essa presume, infatti, comportamenti razionali o, almeno, che mettano nel conto una quota controllabile di irrazionalità e ne bilancino gli effetti. Ma se un giocatore sbrocca davvero la teoria crolla. Alemanno ha sbroccato . E dunque, lungi dall’adottare strategie intelligenti, capaci di ridurre i danni e di diversificare le tattiche di contenimento e ripresa, è precipitato in una sorta di solipsismo tignoso e incazzoso. All’origine c’è quella che ho definito “sindrome dello zio assente”. Nella storia del potere e del suo esercizio (democratico o meno), il leader non è mai completamente solo: accanto a lui, in modo formale o no, operano uno staff e altri soggetti. Tra questi ultimi, ricorre sempre una figura particolare, priva in genere di un incarico definito, dotata piuttosto di una autorità morale e, soprattutto, di una capacità di influenza sul leader, dovuta alle più diverse ragioni: un’antica consuetudine, un robusto sodalizio amicale, una relazione sentimentale, una dipendenza psicologica, una subalternità intellettuale, un ossequio morale … Col tempo, e qualunque fosse l’origine di quel sentimento, tra il leader e questo “zio”, si è creata una relazione estremamente intima, che ha reso il secondo non solo massimamente influente, ma anche indispensabile. Un consigliere appena in penombra, un passo indietro, vigile e disinteressato, sempre presente e sempre lucido. Le più recenti dinamiche della personalizzazione della leadership sembrano aver ridimensionato, se non cancellato, una simile figura. Il leader non sembra condividere con altri, se non con lo staff tecnico, decisioni e scelte. Di conseguenza, risulta non sorretto moralmente da un patronage capace di rassicurarlo, né supportato psicologicamente da una personalità determinata e , insieme, accogliente. Il leader si trova drammaticamente solo. Peggio: abbandonato a sé stesso. Fuori controllo. È la dinamica che oggi sembra travolgere Roberto Formigoni. Ne è una prova inequivocabile l’agitazione psicomotoria di cui appare vittima, il suo trasformismo (fino al burlesque) e la sua irrefrenabile euforia. Gli ultimi spot promozionali di Formigoni rappresentano un oltraggio al comune senso del decoro e possono spiegarsi solo come l’esito di un complotto ai suoi danni: l’infiltrazione di sabotatori, punk-killer o situazionisti- terroristi, nei suoi uffici e la manipolazione pazzoide delle strategie pubblicitarie del presidente. Ma in Formigoni, come già in Alemanno, colpisce in particolare la totale incapacità di autoriflessione. Non un’ammissione di responsabilità, non una dichiarazione di errore, non una autocritica, nemmeno per un calcolo opportunistico che pure suggerirebbe una strategia più flessibile e la possibilità di offrire le proprie scuse, di emendarsi, di voler porre riparo. Perché tutto questo? Pesa moltissimo, io credo, la “sindrome dello zio assente”(la mancanza di consiglieri affidabili affettuosi e autorevoli), che esalta la tendenza a incupirsi nell’affermazione di sé e a irrigidirsi in una sorta di autoesaltazione depressiva. Ecco dispiegarsi così la “terribile solitudine” di cui ha scritto Maurizio Crippa nella sua ottima inchiesta (il Foglio dell’8 e del 9 febbraio).E’ esattamente allora che si manifesta, dirompente, la Hybris: allora, quando gli dèi “accecano coloro che  vogliono perdere”.
Il Foglio 14 febbraio 2012
Politicamente correttissimo
Psico-Alemanno
La “sindrome dello zio assente” e le nevrosi della politica, perché i leader da soli combinano guai.
Luigi Manconi
Quindici anni fa, nel pieno di una vita personale, per così dire, non propriamente morigerata, volli scrivere un “elogio della castità” in difesa di Roberto Formigoni. La privatissima scelta di quest’ultimo era fatta oggetto di dileggio, quasi che l’opzione opposta –in uno spettro che va dalla sessualità monogamica al libertinaggio- fosse di per sé superiore.
Questo per dire come non nutrissi in passato alcun pregiudizio nei confronti del presidente della Regione Lombardia, oggi palesemente affetto da quella che chiamerei “sindrome dello zio assente”. È la stessa che ha colpito Gianni Alemanno. Appare evidente, infatti, anche agli osservatori più obiettivi (e io non sono certo tra questi), che il sindaco di Roma ha vissuto, nelle ultime due settimane, una sorta di delirio. In altre parole, il disastro e il ridicolo gli hanno fatto perdere l’autocontrollo: e di conseguenza tutte le sue mosse e le sue parole sono state l’espressione di una tendenza parossistica, che si avvitava su sé stessa, in una spirale nella quale affondava sempre più goffamente. E sempre più solo (per giorni e giorni, accanto al sindaco non si è appalesato un solo collaboratore, un solo tecnico di fiducia, un solo assessore). D’altra parte, Alemanno parla un italiano basico e incolore, totalmente inadeguato ai tempi di emergenza e alla necessità di mobilitare le energie collettive. Ma soprattutto ha colpito quell’intestardirsi e incaponirsi: un atteggiamento così tetragono da apparire più una manifestazione ossessivo-compulsiva che una scelta politica. E questo solleva un interrogativo. Non sarebbe stato forse meglio, per Alemanno, adottare una linea più duttile, ammettere gli errori, distribuire equamente le responsabilità assumendosene una parte? Ma qui si vede bene come  la teoria dei giochi, che aiuta a spiegare l’azione pubblica,possa risultare fallace. Essa presume, infatti, comportamenti razionali o, almeno, che mettano nel conto una quota controllabile di irrazionalità e ne bilancino gli effetti. Ma se un giocatore sbrocca davvero la teoria crolla. Alemanno ha sbroccato . E dunque, lungi dall’adottare strategie intelligenti, capaci di ridurre i danni e di diversificare le tattiche di contenimento e ripresa, è precipitato in una sorta di solipsismo tignoso e incazzoso. All’origine c’è quella che ho definito “sindrome dello zio assente”. Nella storia del potere e del suo esercizio (democratico o meno), il leader non è mai completamente solo: accanto a lui, in modo formale o no, operano uno staff e altri soggetti. Tra questi ultimi, ricorre sempre una figura particolare, priva in genere di un incarico definito, dotata piuttosto di una autorità morale e, soprattutto, di una capacità di influenza sul leader, dovuta alle più diverse ragioni: un’antica consuetudine, un robusto sodalizio amicale, una relazione sentimentale, una dipendenza psicologica, una subalternità intellettuale, un ossequio morale … Col tempo, e qualunque fosse l’origine di quel sentimento, tra il leader e questo “zio”, si è creata una relazione estremamente intima, che ha reso il secondo non solo massimamente influente, ma anche indispensabile. Un consigliere appena in penombra, un passo indietro, vigile e disinteressato, sempre presente e sempre lucido. Le più recenti dinamiche della personalizzazione della leadership sembrano aver ridimensionato, se non cancellato, una simile figura. Il leader non sembra condividere con altri, se non con lo staff tecnico, decisioni e scelte. Di conseguenza, risulta non sorretto moralmente da un patronage capace di rassicurarlo, né supportato psicologicamente da una personalità determinata e , insieme, accogliente. Il leader si trova drammaticamente solo. Peggio: abbandonato a sé stesso. Fuori controllo. È la dinamica che oggi sembra travolgere Roberto Formigoni. Ne è una prova inequivocabile l’agitazione psicomotoria di cui appare vittima, il suo trasformismo (fino al burlesque) e la sua irrefrenabile euforia. Gli ultimi spot promozionali di Formigoni rappresentano un oltraggio al comune senso del decoro e possono spiegarsi solo come l’esito di un complotto ai suoi danni: l’infiltrazione di sabotatori, punk-killer o situazionisti- terroristi, nei suoi uffici e la manipolazione pazzoide delle strategie pubblicitarie del presidente. Ma in Formigoni, come già in Alemanno, colpisce in particolare la totale incapacità di autoriflessione. Non un’ammissione di responsabilità, non una dichiarazione di errore, non una autocritica, nemmeno per un calcolo opportunistico che pure suggerirebbe una strategia più flessibile e la possibilità di offrire le proprie scuse, di emendarsi, di voler porre riparo. Perché tutto questo? Pesa moltissimo, io credo, la “sindrome dello zio assente”(la mancanza di consiglieri affidabili affettuosi e autorevoli), che esalta la tendenza a incupirsi nell’affermazione di sé e a irrigidirsi in una sorta di autoesaltazione depressiva. Ecco dispiegarsi così la “terribile solitudine” di cui ha scritto Maurizio Crippa nella sua ottima inchiesta (il Foglio dell’8 e del 9 febbraio).E’ esattamente allora che si manifesta, dirompente, la Hybris: allora, quando gli dèi “accecano coloro che  vogliono perdere”.
Il Foglio 14 febbraio 2012
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