CARCERI: UNA BARBARIE DIMENTICARE
Luigi Manconi
Francesco D.F. non è stato il primo detenuto a togliersi la vita nel 2014 all'interno di un carcere italiano, quello romano di Rebibbia, la notte tra domenica e lunedì. Già nel pomeriggio del 3 gennaio, nell'istituto penitenziario di Ivrea, si era suicidato un italiano di 42 anni. Negli anni precedenti c'è stato chi si è ucciso nella notte di Capodanno o nelle prime ore di quel giorno, come in una angosciosa e disperante corsa a lasciare una propria traccia nel tragico calendario dell'esecuzione della pena e delle sue possibili crudeli conseguenze. Queste prime morti sono parte di una serie che, lo dicono le statistiche da oltre un decennio, arriverà a una cifra oscillante tra le cinquanta e le sessanta o, magari, le settanta unità nei prossimi dodici mesi.

In ogni caso, nelle nostre carceri, ci si ammazza con una frequenza diciassette/venti volte superiore a quella che si registra all'interno della popolazione nazionale. E va notato che, mentre tra le persone libere la tendenza all'autolesionismo si manifesta nelle fasce d'età più avanzate, in carcere la percentuale di suicidi è assai più elevata nella classe tra i 24 e i 35 anni. E si verifica nelle prime settimane o nei primi mesi dopo l'ingresso in carcere: il che dimostra come è l'impatto con un universo di cui spesso si ignorano regole e linguaggi, procedure e obblighi, codici e gerarchie, a costituire il fattore precipitante di uno stato di smarrimento che può portare al suicidio. Si aggiunga infine- e questo è un dato totalmente trascurato- che, dal 2000 al 2013, oltre 90 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita: prova inconfutabile del fatto che è l'intero sistema dell'esecuzione della pena a conoscere una crisi irreversibile. Non si tratta, come qualcuno sembra dire, di un problema umanitario o, comunque, non si tratta esclusivamente e nemmeno principalmente di questo; e tanto meno stiamo parlando di buoni sentimenti o di doverosa attenzione per " gli ultimi tra gli ultimi". Tutto questo può essere importante, certo, ma qui sono in gioco, piuttosto, una fondamentale questione di diritto e una altrettanto fondamentale questione di politica. Il degrado del sistema penitenziario, infatti, è l'estrema espressione – la più dolente e oltraggiosa- del collasso dell'intero sistema della giustizia, e quest'ultimo non può essere affrontato se non partendo dal luogo dove tutte le contraddizioni e tutte le iniquità si manifestano nella loro forma assoluta, senza infingimenti e senza mediazioni. Come fallimento delle regole e delle garanzie, ma anche come catastrofe del senso stesso di ogni concezione della pena che si voglia diversa dal mero esercizio della vendetta. Dunque, trattare la questione carceraria non è cosa diversa dall'affrontare le lentezze della giustizia penale e civile o il funzionamento del CSM o ancora gli incarichi extragiudiziari dei magistrati. In altre parole, il carcere è una sorta di rappresentazione tragica di tutte le aporie che il nostro sistema di amministrazione della giustizia rivela quotidianamente. Per questo sorprende che il tema dell'esecuzione della pena (e quello correlato della custodia cautelare) non sia tra quei quattro-cinque obiettivi sui quali dovrebbe fondarsi il patto di coalizione che i partiti della maggioranza di governo si apprestano a sottoscrivere. Stiamo parlando niente meno che di un tema cruciale come quello della libertà personale, delle sue tutele e dei suoi limiti: e su cos'altro, se non su questo, deve fondarsi una politica all'altezza dei tempi? Una politica che voglia davvero riformarsi radicalmente? Poi, si pone il problema delle strategie più adeguate per evitare che la strage di legalità, come dice Marco Pannella, e di persone e di corpi si protragga. Qui le opinioni sono molte e controverse: il capo dello Stato, il ministro della Giustizia, numerosi giuristi e i radicali, ritengono che- unitamente alle " riforme di struttura", capaci di intaccare le prime cause che determinano il sovraffollamento ( leggi sulle droghe, sull'immigrazione, sulla recidiva)- si imponga la necessità di provvedimenti come l'amnistia e l'indulto. Anch'io ne sono convinto, a partire da una considerazione elementare: il nostro sistema penitenziario è un corpaccione febbricitante, affetto da una gravissima patologia. Prima di adottare le terapie ordinarie (le" riforme di struttura", appunto) va drasticamente abbassata quella febbre che deforma in misura abnorme l'organismo. Per ridurre rapidamente quella temperatura alterata, e realizzare i provvedimenti di lungo periodo, amnistia e indulto sono indispensabili. Chi non è d'accordo, proponga soluzioni alternative altrettanto efficaci. Ma in fretta. Ogni giorno che passa porta con sé una scia di sofferenza e uno scialo di morte.  
Il Mattino, 07-01-2014

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Commenti (1)
  • Iolanda Cuccovia  - strage di esseri umani per mancato senso di giusti

    SI QUANDO NN CE SENZO DI GIUSTIZIA NON C'È SENZO DI POTENZA E NE DI SAPIENZA TANTO PIÙ QUELLO DI RICONOSCERE CHE CHI DEVE PAGARE IL. DEBITO E GIA VITTIMA DI QUESTO SISTEMA CRITICO SULL ' EDUCAZIONE GIA DALLE SCUOLE AIUTO ALLE FAMIGLIE SPROVVEDUTE SUL FRONTE E TUTTI I FRONTI VERO SENZO DI GIUSTIZIA NOI PICCOLI POSSIAMO FARE I CONTI CON I SPICCIOLI MA IL GOVERNO E A QUELLO CHE VORREI DARE TUTTA LA MIA FIDUCIA SE TROVASSE UN SISTEMA COSTA MOLTO MENO CHE MANTENERE IN CARCERE PERSONE CHE SE NE FA DI TUTTA L' ERBA UN FASCIO RIEDUCARE ORA NON CI SONO LE FORZE GIUSTE NE PERIL RIORDINAMENTO ORA PIU CHE MAI AMNISTIA E LUNICO SISTEMA PER ORA CHE DA UN SENZO ALLE PAROLE UN GESTO D D'AMORE . DA CHI? DA CHI HA IL VERO SENZO DI GIUSTIZIA.
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