Rivoluzione eh
Grillo, Ingroia e quel gustoso dibattito sul senso più profondo del giustizialismo italiano
Luigi Manconi
Qualche giorno fa ho scritto sul Messaggero un articolo a proposito della scelta di Antonio Ingroia di candidarsi alle prossime elezioni alla guida del movimento Rivoluzione civile, suscitando un dibattito piuttosto accaldato sulla mia pagina facebook. Di quelle reazioni, due cose mi hanno colpito in particolare. La prima è che molti, a me dichiaratamente affini su numerose problematiche (diritti individuali e garanzie penali, autodeterminazione su questioni “di vita e di morte”, libertà di movimento e relazioni inter-etniche…), possano essermi così aggressivamente ostili quando formulo un giudizio critico sulla posizione di Ingroia. Ricorrendo a  una formula paradossale, ma non troppo, avevo segnalato, infatti, una qualche specularità tra l’ex pm di Palermo e Silvio Berlusconi. È stato a questo punto che una gentile interlocutrice ha replicato  – ecco il secondo motivo di sorpresa – respingendo l’accostamento per Ingroia, ma evocandolo per “Di Pietro, lui si alter ego di Berlusconi”. Tutto ciò è sommamente istruttivo e per certi versi tragico. Se non per la gran parte dei lettori del Foglio, certamente per me che, una quota di quei fan di Rivoluzione civile, sento come parenti, perlomeno alla lontana. Si tratta di persone che, oltre che in buona fede (ma questo è un riconoscimento che ormai si attribuisce a tutti e che risulta, più che ovvio, ipocrita), sono spesso espressione disinteressata di domande di equità e di libertà, tradotte in movimenti collettivi dotati di sensibilità e di intelligenza. I loro percorsi sociali seguono itinerari autonomi, capaci talvolta di darsi obiettivi di riforma e di elaborare progetti di governo. Ma quei movimenti, così come gli individui che li compongono o che a essi guardano,  sembrano mossi in primo luogo da un bisogno di rivalsa e da un’istanza di risarcimento. In altre parole, singoli e  gruppi si sentono vittime – ed è un sentimento spesso sacrosanto e comunque comprensibile -  di un’ingiustizia assoluta. Vivono e operano come se pesasse su di loro una cappa soffocante, costituita dall’attività passata e attuale  di un sistema che nega verità e  giustizia. E’ come se un regime dispotico, compatto e omogeneo, dominasse le esistenze individuali e la vita sociale, lesionando ciascuno di noi, ledendone i diritti, danneggiandoci nel corpo e nell’anima. Questo fa sì che tutte le istanze, comprese le più legittime, e tutti gli obiettivi finiscano, poi, col venire sussunti (e sacrificati) da quell’unica e prepotente domanda di rivalsa e di risarcimento. Che assume fatalmente la forma del ribaltamento, del rovesciamento totale, della Rivoluzione (civile e, va da sé, pacifica, pacificissima). Da ciò deriva che molte domande sociali, spesso motivate,  e molte esigenze di cambiamento, altrettanto condivisibili, vengano enfatizzate come istanza di  giustizia che, per essere la più concreta possibile, si traduce nella forma della procedura penale: e, dunque, in un discorso pubblico, fatto di accuse e processi, pene e sanzioni, epurazioni e interdizioni. Ulteriore conseguenza è che quel repertorio, meglio che da chiunque altro, debba essere gestito da un amministratore della giustizia. Un Pubblico Accusatore, ecco quello che ci vuole. È questa la radice più profonda del giustizialismo: ciò che ne fa non una semplice deriva del diritto, bensì una variante perversa della politica. In quella prospettiva il pm è l’Angelo vendicatore, insieme laico e tecnico, dell’ingiustizia patita dall’intera società: e, per realizzare ciò, deve essere un Rivoluzionario. È questo che in qualche misura rende inevitabile una certa ispirazione palingenetica dei programmi politici in questione: essi devono promettere di “rivoltare l’Italia come un calzino” (ricordate?). Ma la palingenesi nella tradizione religiosa e nella letteratura devozionale, nella precettistica morale ma anche nella storia delle ideologie, è evento epocale. Che si realizza o a cui si aspira in occasione di grandi e definitivi avvenimenti individuali o universali (ascesi, metanoia, apocalisse ma anche guerra mondiale e colpo di stato). Qui, invece, la palingenesi sperata ha cadenza semestrale, se pensiamo agli anni più recenti la vediamo incarnarsi con una sequenza vertiginosa in Di Pietro, Grillo e, appunto, Ingroia, passando addirittura per de Magistris (si noti, tre procuratori su quattro). Come può accadere che un processo di liberazione sociale passi, con rapidità bruciante, da uno all’altro possibile titolare? È proprio ciò che più impressiona: la palingenesi ha assunto un formato tascabile, prêt-à-porter, multiuso. La parabola di Di Pietro è impressionante e, risulterebbe, se il protagonista ne avesse appena appena consapevolezza, drammatica. L’uomo che ha costituito la sua leadership pressoché interamente su un discorso pubblico, fatto di sospetti e di evocazioni sbirresche, di messaggi intimidatori e di vocabolario da caserma, precipita proprio a seguito di una ridda di sospetti che, infine, gli franano addosso. In pochi mesi, colui che la cupa euforia del web aveva esaltato per aver dato a Berlusconi di “stupratore della democrazia”, viene definito dallo stesso web “alter ego di Berlusconi”. Qualcosa di non troppo dissimile sta accadendo forse a Grillo. Nei panni di Ingroia, me ne preoccuperei.
il Foglio 8 gennaio 2013
Rivoluzione eh
Grillo, Ingroia e quel gustoso dibattito sul senso più profondo del giustizialismo italiano
Luigi Manconi
Qualche giorno fa ho scritto sul Messaggero un articolo a proposito della scelta di Antonio Ingroia di candidarsi alle prossime elezioni alla guida del movimento Rivoluzione civile, suscitando un dibattito piuttosto accaldato sulla mia pagina facebook.
Di quelle reazioni, due cose mi hanno colpito in particolare. La prima è che molti, a me dichiaratamente affini su numerose problematiche (diritti individuali e garanzie penali, autodeterminazione su questioni “di vita e di morte”, libertà di movimento e relazioni inter-etniche…), possano essermi così aggressivamente ostili quando formulo un giudizio critico sulla posizione di Ingroia. Ricorrendo a  una formula paradossale, ma non troppo, avevo segnalato, infatti, una qualche specularità tra l’ex pm di Palermo e Silvio Berlusconi. È stato a questo punto che una gentile interlocutrice ha replicato  – ecco il secondo motivo di sorpresa – respingendo l’accostamento per Ingroia, ma evocandolo per “Di Pietro, lui si alter ego di Berlusconi”. Tutto ciò è sommamente istruttivo e per certi versi tragico. Se non per la gran parte dei lettori del Foglio, certamente per me che, una quota di quei fan di Rivoluzione civile, sento come parenti, perlomeno alla lontana. Si tratta di persone che, oltre che in buona fede (ma questo è un riconoscimento che ormai si attribuisce a tutti e che risulta, più che ovvio, ipocrita), sono spesso espressione disinteressata di domande di equità e di libertà, tradotte in movimenti collettivi dotati di sensibilità e di intelligenza. I loro percorsi sociali seguono itinerari autonomi, capaci talvolta di darsi obiettivi di riforma e di elaborare progetti di governo. Ma quei movimenti, così come gli individui che li compongono o che a essi guardano,  sembrano mossi in primo luogo da un bisogno di rivalsa e da un’istanza di risarcimento. In altre parole, singoli e  gruppi si sentono vittime – ed è un sentimento spesso sacrosanto e comunque comprensibile -  di un’ingiustizia assoluta. Vivono e operano come se pesasse su di loro una cappa soffocante, costituita dall’attività passata e attuale  di un sistema che nega verità e  giustizia. E’ come se un regime dispotico, compatto e omogeneo, dominasse le esistenze individuali e la vita sociale, lesionando ciascuno di noi, ledendone i diritti, danneggiandoci nel corpo e nell’anima. Questo fa sì che tutte le istanze, comprese le più legittime, e tutti gli obiettivi finiscano, poi, col venire sussunti (e sacrificati) da quell’unica e prepotente domanda di rivalsa e di risarcimento. Che assume fatalmente la forma del ribaltamento, del rovesciamento totale, della Rivoluzione (civile e, va da sé, pacifica, pacificissima). Da ciò deriva che molte domande sociali, spesso motivate,  e molte esigenze di cambiamento, altrettanto condivisibili, vengano enfatizzate come istanza di  giustizia che, per essere la più concreta possibile, si traduce nella forma della procedura penale: e, dunque, in un discorso pubblico, fatto di accuse e processi, pene e sanzioni, epurazioni e interdizioni. Ulteriore conseguenza è che quel repertorio, meglio che da chiunque altro, debba essere gestito da un amministratore della giustizia. Un Pubblico Accusatore, ecco quello che ci vuole. È questa la radice più profonda del giustizialismo: ciò che ne fa non una semplice deriva del diritto, bensì una variante perversa della politica. In quella prospettiva il pm è l’Angelo vendicatore, insieme laico e tecnico, dell’ingiustizia patita dall’intera società: e, per realizzare ciò, deve essere un Rivoluzionario. È questo che in qualche misura rende inevitabile una certa ispirazione palingenetica dei programmi politici in questione: essi devono promettere di “rivoltare l’Italia come un calzino” (ricordate?). Ma la palingenesi nella tradizione religiosa e nella letteratura devozionale, nella precettistica morale ma anche nella storia delle ideologie, è evento epocale. Che si realizza o a cui si aspira in occasione di grandi e definitivi avvenimenti individuali o universali (ascesi, metanoia, apocalisse ma anche guerra mondiale e colpo di stato). Qui, invece, la palingenesi sperata ha cadenza semestrale, se pensiamo agli anni più recenti la vediamo incarnarsi con una sequenza vertiginosa in Di Pietro, Grillo e, appunto, Ingroia, passando addirittura per de Magistris (si noti, tre procuratori su quattro). Come può accadere che un processo di liberazione sociale passi, con rapidità bruciante, da uno all’altro possibile titolare? È proprio ciò che più impressiona: la palingenesi ha assunto un formato tascabile, prêt-à-porter, multiuso. La parabola di Di Pietro è impressionante e, risulterebbe, se il protagonista ne avesse appena appena consapevolezza, drammatica. L’uomo che ha costituito la sua leadership pressoché interamente su un discorso pubblico, fatto di sospetti e di evocazioni sbirresche, di messaggi intimidatori e di vocabolario da caserma, precipita proprio a seguito di una ridda di sospetti che, infine, gli franano addosso. In pochi mesi, colui che la cupa euforia del web aveva esaltato per aver dato a Berlusconi di “stupratore della democrazia”, viene definito dallo stesso web “alter ego di Berlusconi”. Qualcosa di non troppo dissimile sta accadendo forse a Grillo. Nei panni di Ingroia, me ne preoccuperei.

il Foglio 8 gennaio 2013
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Commenti (1)
  • Luigi Francia  - magistratura, repressione e vera lotta alla mafia
    Saltando, ma non troppo, di palo in frasca segnalo questa bella intervista di Mauro Rostagno al giudice Borsellino. Borsellino in un passo afferma che la magistratura svolge un ruolo di repressione della lotta alla mafia e che questa va combattuta da tutta l'Amministrazione dello Stato. Mi auguro che Grillo, Di Pietro, Ingroia, dimostrino di essere realmente con Borsellino unendosi idealmente e con i fatti a tutte le forze che vogliono realmente dare una svolta positiva a questo Paese, in primo luogo il PD di Bersani e, perché no, la nuova c.d. Lista Monti, senza cercare triti e ritriti distinguo tipici della politica di sempre. [ http://www.youtube.com/watch?v=lZZT03fhb-U ]
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