Politicamente correttissimo
Ma che vi ridete
Prescritto o no, ormai il Cav. è solo la maschera logora di una pochade spenta. Capito foglianti?
Luigi Manconi
La prima reazione è quella di domandare: ma che c’hanno da ridere? Poi, grazie al training autogeno cui  si è sottoposto per acquisire un carattere, oltre che una cultura, autenticamente liberale, uno si mette nei panni dell’avversario e ne capisce l’euforia. Così, risulta più che comprensibile che Giuliano Ferrara voglia aggiungere qualche “allegra glossa al giubilo” (il Foglio di ieri) con cui i  sostenitori di Berlusconi hanno accolto la notizia della prescrizione per l’ex premier. Si capisce bene il sollievo per un pericolo che si allontana. Ma il Foglio non si accontenta e, ancora una volta, tenta di fare di un risultato processuale una sorta di paradigma della vicenda pubblica nazionale. Ma, ancora una volta, l’esito è  quello di buttarla in caciara. Trattandosi di un quotidiano sofisticato come il Foglio, la caciara non è il vociare sgangherato di una scolaresca né lo schiamazzo alcolico di un gruppo di giovinastri né la cameratesca ribalderia di una caserma e nemmeno  la sguaiataggine greve di un addio al celibato. Qui la caciara vuole disegnare i tratti di una tipologia del carattere nazionale, dove si contrapporrebbero due stili di vita, due atteggiamenti morali e, in ultima istanza, due antropologie. In questo quadro, per definire il modello incarnato da Berlusconi e dal berlusconismo, Ferrara utilizza formule e termini (“irriverente”,  “benevolo”, “godereccio” “ironia”, “sfrontato”, “seduttore”,“saggia follia”…) tesi, tutti, a definire i contorni di una maschera italiana di immediata riconoscibilità e di indubbio successo. Ma è una maschera ormai decaduta a caricatura, logorata dall’abuso (e non di anni, ma di secoli) e profondamente segnata da una irreparabile cupezza. Possibile che questo sfugga a Ferrara?  Che non colga, cioè, quanto sia forzata quell’allegria, ostentata quella piacevolezza, esibita quella guasconeria? Da tempo la rappresentazione del modello-Berlusconi, tratteggiata dal Foglio, non annuncia  un “mondo nuovo”, vitale e dirompente, libertario e  gioioso, libertino e  innocente. È, all’opposto, una pochade spenta, messa in scena per troppe stagioni, interpretata da figuranti tanto annoiati da non essere credibili. E il copione è sempre quello: una esaltazione del piacere che appare, come nella precettistica ottocentesca, più lubrica che felice; un inno alla vita intonato come esorcismo per un vero e proprio panico della morte, della malattia, della senescenza, con ciò che comporta di declino del corpo e dello spirito. Ferrara vuol farne l’affresco di un’antropologia post-novecentesca e post- politica, ma non sembra rendersi conto che in quella raffigurazione tutto è artificiale, sintetico, inautentico e quel gusto dolciastro di finzione non può che evocare malinconia. E se pure fosse vero che dall’altra parte si trova solo un’ Italia che “digrigna” i dentini e si considera “infallibilmente onesta”, l’alternativa rappresentata dal berlusconismo sarebbe destinata, in ogni caso, all’epilogo. E, insisto, proprio perché finta, posticcia, capace di parlare solo con suono fesso. Davvero qualcuno può credere che la mania compulsiva di Berlusconi per le barzellette sia il segno di un carattere gioioso e –in termini generali-  di unaconcezione ottimistica del futuro:  e non, piuttosto, di un umore tetro, tendente alla depressione cronica? Basterebbe aver letto qualche pagina di Piero Chiara, di Franco Lucentini e di Goffredo Parise per accorgersene. Da sempre, nella letteratura, “l’uomo che racconta le barzellette” è a rischio clinico. Ma tutto ciò rientrerebbe nei limiti di una esercitazione psicopolitica, forse irriguardosa, e nulla più. A renderla drammatica è il fatto che quella rappresentazione del berlusconismo (proposta in alternativa a una verità “togata”, che vestirebbe la divisa dell’odio) deve misurarsi con un bilancio politico fallimentare. Una totale sconfitta. In altri termini, di quella che voleva essere una rivoluzione ideologica e antropologica, rischia di rimanere solo l’eco delle risate dei cortigiani o di quei pochi che gli vogliono davvero bene. Non c’è alcuna grandezza in tutto ciò, e nemmeno la più esile traccia della narrativa di Boccaccio e di Cervantes, come vorrebbe Ferrara. Qui basta e avanza Paolo Conte (quand’era bravo): “Ci sono certi nodi di cravatta che dietro c’è la mano di una moglie,/ ma dietro ad ogni moglie, c’è una amante senza mutande./ Nel gruppo manca mai qualche avvocato, a lui tocca di fare il bel discorso,/ la faccia sua collerica si accende e ci confonde./Ma come parla bene, e poi ci spiega: di ferro è questa classe,  battimani. /Ma uno con la testa fra le mani lo guarda fisso, senza una piega ./(…). Le facce rosse rosse, ormai si canta a squarciagola, senza intonazione,/ nessuno sentirà chi si è perduto, in mezzo al brindisi gridando: aiuto”.
Giuslavorismo  delle ferriere. Così Alberto Bombassei, candidato alla presidenza di Confindustria:"Io non ho le bacheche dell'Unità nelle mie fabbriche, non le ho mai avute. Per la verità non ci sono neanche altri giornali. Ma per come l’Unità è accanita nei miei confronti quelle bacheche le sbullonerei volentieri anche io".
il Foglio 28 febbraio 2012
Politicamente correttissimo
Ma che vi ridete
Prescritto o no, ormai il Cav. è solo la maschera logora di una pochade spenta. Capito foglianti?
Luigi Manconi
La prima reazione è quella di domandare: ma che c’hanno da ridere? Poi, grazie al training autogeno cui  si è sottoposto per acquisire un carattere, oltre che una cultura, autenticamente liberale, uno si mette nei panni dell’avversario e ne capisce l’euforia. Così, risulta più che comprensibile che Giuliano Ferrara voglia aggiungere qualche “allegra glossa al giubilo” (il Foglio di ieri) con cui i  sostenitori di Berlusconi hanno accolto la notizia della prescrizione per l’ex premier.
Si capisce bene il sollievo per un pericolo che si allontana. Ma il Foglio non si accontenta e, ancora una volta, tenta di fare di un risultato processuale una sorta di paradigma della vicenda pubblica nazionale. Ma, ancora una volta, l’esito è  quello di buttarla in caciara. Trattandosi di un quotidiano sofisticato come il Foglio, la caciara non è il vociare sgangherato di una scolaresca né lo schiamazzo alcolico di un gruppo di giovinastri né la cameratesca ribalderia di una caserma e nemmeno  la sguaiataggine greve di un addio al celibato. Qui la caciara vuole disegnare i tratti di una tipologia del carattere nazionale, dove si contrapporrebbero due stili di vita, due atteggiamenti morali e, in ultima istanza, due antropologie. In questo quadro, per definire il modello incarnato da Berlusconi e dal berlusconismo, Ferrara utilizza formule e termini (“irriverente”,  “benevolo”, “godereccio” “ironia”, “sfrontato”, “seduttore”,“saggia follia”…) tesi, tutti, a definire i contorni di una maschera italiana di immediata riconoscibilità e di indubbio successo. Ma è una maschera ormai decaduta a caricatura, logorata dall’abuso (e non di anni, ma di secoli) e profondamente segnata da una irreparabile cupezza. Possibile che questo sfugga a Ferrara?  Che non colga, cioè, quanto sia forzata quell’allegria, ostentata quella piacevolezza, esibita quella guasconeria? Da tempo la rappresentazione del modello-Berlusconi, tratteggiata dal Foglio, non annuncia  un “mondo nuovo”, vitale e dirompente, libertario e  gioioso, libertino e  innocente. È, all’opposto, una pochade spenta, messa in scena per troppe stagioni, interpretata da figuranti tanto annoiati da non essere credibili. E il copione è sempre quello: una esaltazione del piacere che appare, come nella precettistica ottocentesca, più lubrica che felice; un inno alla vita intonato come esorcismo per un vero e proprio panico della morte, della malattia, della senescenza, con ciò che comporta di declino del corpo e dello spirito. Ferrara vuol farne l’affresco di un’antropologia post-novecentesca e post- politica, ma non sembra rendersi conto che in quella raffigurazione tutto è artificiale, sintetico, inautentico e quel gusto dolciastro di finzione non può che evocare malinconia. E se pure fosse vero che dall’altra parte si trova solo un’ Italia che “digrigna” i dentini e si considera “infallibilmente onesta”, l’alternativa rappresentata dal berlusconismo sarebbe destinata, in ogni caso, all’epilogo. E, insisto, proprio perché finta, posticcia, capace di parlare solo con suono fesso. Davvero qualcuno può credere che la mania compulsiva di Berlusconi per le barzellette sia il segno di un carattere gioioso e –in termini generali-  di unaconcezione ottimistica del futuro:  e non, piuttosto, di un umore tetro, tendente alla depressione cronica? Basterebbe aver letto qualche pagina di Piero Chiara, di Franco Lucentini e di Goffredo Parise per accorgersene. Da sempre, nella letteratura, “l’uomo che racconta le barzellette” è a rischio clinico. Ma tutto ciò rientrerebbe nei limiti di una esercitazione psicopolitica, forse irriguardosa, e nulla più. A renderla drammatica è il fatto che quella rappresentazione del berlusconismo (proposta in alternativa a una verità “togata”, che vestirebbe la divisa dell’odio) deve misurarsi con un bilancio politico fallimentare. Una totale sconfitta. In altri termini, di quella che voleva essere una rivoluzione ideologica e antropologica, rischia di rimanere solo l’eco delle risate dei cortigiani o di quei pochi che gli vogliono davvero bene. Non c’è alcuna grandezza in tutto ciò, e nemmeno la più esile traccia della narrativa di Boccaccio e di Cervantes, come vorrebbe Ferrara. Qui basta e avanza Paolo Conte (quand’era bravo): “Ci sono certi nodi di cravatta che dietro c’è la mano di una moglie,/ ma dietro ad ogni moglie, c’è una amante senza mutande./ Nel gruppo manca mai qualche avvocato, a lui tocca di fare il bel discorso,/ la faccia sua collerica si accende e ci confonde./Ma come parla bene, e poi ci spiega: di ferro è questa classe,  battimani. /Ma uno con la testa fra le mani lo guarda fisso, senza una piega ./(…). Le facce rosse rosse, ormai si canta a squarciagola, senza intonazione,/ nessuno sentirà chi si è perduto, in mezzo al brindisi gridando: aiuto”.
Giuslavorismo  delle ferriere. Così Alberto Bombassei, candidato alla presidenza di Confindustria:"Io non ho le bacheche dell'Unità nelle mie fabbriche, non le ho mai avute. Per la verità non ci sono neanche altri giornali. Ma per come l’Unità è accanita nei miei confronti quelle bacheche le sbullonerei volentieri anche io".
il Foglio 28 febbraio 2012
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