La lezione di chi crede nel lavoro
Luigi Manconi
La retorica totalitaria, che persegue innanzitutto il fine di perpetuare i sistemi di  dominio, li chiamerebbe “eroi del lavoro”, quegli operai travolti dal crollo dei capannoni mentre tentavano di  riprendere l’attività produttiva. Ma quella retorica si attaglia meglio a una ideologia stacanovista o alla mobilitazione popolare per il raggiungimento del “piano quinquennale”.
Qui emerge tutt’altro: e le parole di compagni parenti e amici, che a quelle morti dedicano ricordi sobri e severi, raccontano una realtà assai diversa dall’enfasi produttivistica dei regimi dispotici. Nessuna follia cottimistica e nessuna schiavitù industrialista sembrano aver indotto quegli uomini a ritornare nei luoghi di lavoro, a riprendere in mano gli attrezzi del mestiere, a mettersi nelle condizioni di continuare a produrre. Mai come nell’ora in cui i simboli del micro capitalismo crollano uno dopo l’altro, e restano gli scheletri dei capannoni lesionati, si era rivelata così vividamente la forza della cultura del lavoro e del legame sociale che ne è, allo stesso tempo, premessa e conseguenza. Se proprio si volesse indicare una definizione, quei morti sono piuttosto gli anti-eroi del lavoro: e proprio perché in loro, così come nei loro compagni, non è rintracciabile alcuna esaltazione da “premio di produzione” e nemmeno alcuna identificazione subalterna con le macchine o con la proprietà (con “il padrone”). Al punto che la struttura piccolo e medio-imprenditoriale non sembra determinare una vera e propria  ideologia della cogestione, magari nella versione un po’ cialtrona del “qua siamo tutti una famiglia”. Piuttosto, quella prossimità tra titolare e dipendenti sembra interamente finalizzata a migliorare l’organizzazione del lavoro e la produttività e a incentivare le dinamiche di cooperazione e il senso di una responsabilità condivisa. Tutto ciò si basa sul retroterra di una storia robusta, di una cultura comune e di processi sociali diffusi. Il sisma si abbatte in un territorio dove, nel corso dei decenni, si sono sviluppati almeno tre importanti distretti: quello della ceramica, quello della meccanica e quello del biomedicale. E distretti non significa solo posti di lavoro industriale, ma anche indotto, rete commerciale, sistema dei servizi e, di conseguenza, delle relazioni sociali. Significa, appunto, integrazione e coesione: per operari italiani e per operai stranieri. Questo - anche in Emilia, anche in quel pezzo di territorio - ha subito i colpi della crisi economica, ha patito l’indebolirsi dei meccanismi di protezione e dei presidi associativi, ha visto allentarsi i legami tra individui e tra comunità. E, tuttavia, qualcosa – molto, in realtà – ha resistito: e ci si dava e ci si dà da fare per riprendere, rafforzare, rilanciare. Forse - possiamo solo immaginarlo - è stata questa la principale motivazione che ha indotto quegli operai a rientrare in quei capannoni. Ma guai a equivocare il senso di quella decisione e, di conseguenza, di quelle morti. Nessuno di loro presumibilmente ha ritenuto che il lavoro fosse una priorità più urgente di altre (la propria famiglia e la propria abitazione): ma tutti, altrettanto presumibilmente, davano al lavoro il senso che ha per quanti non lo vivono né come una condanna biblica né come regime schiavistico. D’altra parte, siamo nella terra dove il lavoro è stato sempre accompagnato da una attività di cooperazione e da vincoli di reciprocità e mutualità. E dove il lavoro è tuttora trasformazione della natura e del mondo fisico, ma anche scambio simbolico tra gli individui e principio di identità. Il mestiere e la fatica che ne deriva non esauriscono tutto ciò, ma ne sono  una componente fondamentale. Forse non sono nemmeno il bene più prezioso della personalità, ma certo costituiscono parte essenziale di quel bene più prezioso. Qui tra individuo e lavoro e collettività si è sviluppato un tessuto fittissimo di rapporti e una trama di corpi intermedi, di aggregazioni, di sedi comuni (sindacati e parrocchie, leghe e comitati, cooperative e associazioni, spacci e dopolavoro) è un modello sociale, e ancor prima di sviluppo territoriale e comunitario, che ha retto per 150 anni e che oggi, fatalmente, mostra incrinature e crepe. Ma queste lesioni, così simili (per vocabolario e non solo) a quelle prodotte dal sisma, possono risultare, anch’esse, di assestamento. Ed anche è vero che, nel frattempo, altri modelli non sono emersi, dal momento che quello definito “del Nord-Est” ne è una semplice variabile. Ma tutto questo discorso rimanda a una questione cruciale. Dopo quasi quarant’anni di dibattito sulle trasformazioni del lavoro e del mercato del lavoro, dopo la crisi della grande fabbrica e dell’organizzazione fordista, dopo le fragili teorizzazioni sulle “partite iva” e sulla “economia dei servizi” e ancora sul “telelavoro”, ci si ritrova ancora qui. E guai ad allontanarcene. Lo sviluppo economico non può fare a meno di capannoni industriali (più stabili e resistenti e, se possibile, meno oltraggiosamente brutti); la diffusione delle tecnologie e delle biotecnologie non può rinunciare alla manifattura; e ancora oggi non esiste lavoro che non richieda sensibilità e intelligenza, duttilità e competenza. Tutto ciò risente in misura rilevantissima dell’economia e della cultura del luogo; e tutto ciò si manifesta qui, in Emilia, forse più significativamente di quanto si manifesti nell’intero territorio nazionale e in gran parte delle sue regioni e aree. Ma proprio per questo, da qui si deve partire per immaginare un programma per l’immediato futuro, quello che inizia domani mattina. Certo, sappiamo bene che quanto detto può apparire lontano e astratto per quella parte notevole di popolazione italiana che il lavoro l’ha perso o sta per perderlo o non l’ha mai avuto. Ma è proprio la penuria di lavoro a renderlo ancora più prezioso: come risulta evidente dalle aspettative di quei giovani che legano indissolubilmente i propri progetti di vita e i propri bisogni di identità all’inserimento nel mercato del lavoro. Per questa ragione, infine, i morti dell’Emilia sono davvero degli eroici anti-eroi. Perché sono morti nella più assoluta normalità e ordinarietà  dell’esistenza quotidiana, dove “un lavoro fatto bene” è la massima espressione di un sapere antico. Quello del “bene fare”, che è poi nient’altro che la manifestazione sociale di un benessere tenacemente conquistato.   
Il Messaggero 31 maggio 2012
Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.