I conti del 41 flop
La posta in gioco della "trattativa". Ora l'Unità rivela che il grisbì dello Stato-mafia non esisteva
Luigi Manconi
Ieri, sull’Unità di Claudio Sardo (sempre più interessante e sempre più “sul pezzo”), è stato pubblicato un articolo a firma di Claudia Fusani, tanto lineare quanto sorprendente e, per certi versi, dirompente. Il tema è, ancora una volta, quello della presunta trattativa Stato-mafia: questione delicatissima e ricca di conseguenze, ma ancor più di nodi ingarbugliati e dilemmi laceranti. Il problema – come già nella vicenda, diversissima ma affine per alcuni aspetti, del rapimento di Aldo Moro – è quello dei limiti (giuridici, politici e morali) della possibilità di negoziazione e mediazione dello Stato nel rapporto/conflitto con i propri nemici. Ma, quando non vi siano prove certe di tradimento e intelligenza col nemico, la questione è tutta politica. Ovvero quale prezzo lo Stato può pagare per mettere i propri nemici nella condizione di non nuocere o per limitarne la potenza criminale o per ottenere la tutela di alcuni beni preziosi (la vita di un ostaggio, la protezione di una comunità, la riduzione della capacità di violenza …)? Come si vede, dilemmi terribili e che vanno al cuore dei processi di legittimazione dell’autorità statuale: sia per quanto riguarda il monopolio del potere e dell’uso della forza, sia per quanto riguarda la tutela dell’incolumità dei propri cittadini. Sia chiaro: non sono in grado di affermare se la trattativa vi sia o non vi sia stata; e se, qualora effettivamente intrapresa, vi siano stati atti di collusione con la criminalità organizzata, tali da configurare precise fattispecie penali. Ma so che, a distanza di due decenni, e per ciò che finora abbiamo appreso, e per le differenti conclusioni tratte dalle diverse procure, l’intera questione andrebbe valutata con criteri esclusivamente politici. Ora, in questo quadro storico-investigativo interviene una importante novità. Claudia Fusani, sull’Unità, spiega tutto molto bene, partendo dall’analisi critica di ciò che –nelle ricostruzioni della procura di Palermo, nelle anticipazioni finora emerse,  e, ancor più, nella mitologia che ne è derivata – costituirebbe la posta in gioco di quella stessa trattativa. Ovvero, la mancata proroga della misura del 41 bis per 520 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. La sospensione del 41 bis per centinaia di reclusi altamente pericolosi sarebbe stata la contropartita richiesta – all’interno di quel negoziato – dall’ organizzazione mafiosa; e a quella sospensione, l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso sarebbe arrivato sia perché direttamente coinvolto nell’ operazione sia perché sottoposto a pressioni da diversi soggetti (e, tra essi, l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). Ora emergono alcuni elementi, evidenziati dall’attività della Commissione parlamentare antimafia, che meritano la massima attenzione. Il 12 marzo scorso, il sostituto procuratore di Firenze Nicolosi, nel corso della sua audizione, ha dichiarato che la revoca del 41 bis sarebbe stata “indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra: non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. È un’affermazione, come detto, dirompente rispetto ad un diffuso senso comune che si è depositato in questi ultimi anni; certo, altre procure (quella di Palermo e, in qualche misura, quella di Caltanisetta) contestano quella valutazione: ma già questa radicale divergenza di opinioni tra gli inquirenti segnala la difficoltà di giungere a conclusioni nette quali quelle che sembrano oggi prevalere. A ciò si aggiunga un altro dato, ancora più significativo. A beneficiare della mancata conferma del 41 bis sarebbero stati 520 detenuti e, su questo dato impressionante è stata costruita molta della capacità di suggestione nei confronti dell’opinione pubblica che il tema della trattativa richiama. Ma proprio qui casca l’asino. L’elenco dei 520 è stato sottoposto a una meticolosa disamina da parte dei consulenti della Commissione antimafia e, ancor prima, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che nel gennaio del 2011 inviò una relazione in merito alla Procura di Palermo. È emerso, così, che di quei 520 beneficiari, appena uno su 12 (44) avrebbe avuto rinnovata, in una fase successiva e a una ulteriore e rigorosa verifica, la misura del 41 bis. E di quei 44 meno di una decina rivelerebbero “un elevato profilo criminale”. Tale valutazione risulta confermata da quella precedente indagine, a opera del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che viene resa nota oggi dall’Unità. In altre parole, sia il Dap che i consulenti della Commissione antimafia concordano nel ritenere che il 41 bis, allora adottato per la prima volta, venne applicato con eccessiva larghezza e in maniera assai estensiva. E sembra che, tra coloro ai quali il 41 bis fu sospeso per decisione del Ministro Conso (334), appena 23 fossero siciliani. Il che, certamente, non annulla, ma senza dubbio attenua, la rilevanza dell’interesse della mafia per la loro declassificazione e per il loro ritorno a un regime carcerario ordinario. E va ricordato che, per 8 di essi, fu lo stesso Conso successivamente a ripristinare il “carcere duro”. In conclusione, sembra di potersi dire che, ancora una volta, la matematica valga più della retorica.
il Foglio 16 ottobre 2012
La posta in gioco della "trattativa". Ora l'Unità rivela che il grisbì dello Stato-mafia non esisteva
Luigi Manconi
Ieri, sull’Unità di Claudio Sardo (sempre più interessante e sempre più “sul pezzo”), è stato pubblicato un articolo a firma di Claudia Fusani, tanto lineare quanto sorprendente e, per certi versi, dirompente. Il tema è, ancora una volta, quello della presunta trattativa Stato-mafia: questione delicatissima e ricca di conseguenze, ma ancor più di nodi ingarbugliati e dilemmi laceranti.
Il problema – come già nella vicenda, diversissima ma affine per alcuni aspetti, del rapimento di Aldo Moro – è quello dei limiti (giuridici, politici e morali) della possibilità di negoziazione e mediazione dello Stato nel rapporto/conflitto con i propri nemici. Ma, quando non vi siano prove certe di tradimento e intelligenza col nemico, la questione è tutta politica. Ovvero quale prezzo lo Stato può pagare per mettere i propri nemici nella condizione di non nuocere o per limitarne la potenza criminale o per ottenere la tutela di alcuni beni preziosi (la vita di un ostaggio, la protezione di una comunità, la riduzione della capacità di violenza …)? Come si vede, dilemmi terribili e che vanno al cuore dei processi di legittimazione dell’autorità statuale: sia per quanto riguarda il monopolio del potere e dell’uso della forza, sia per quanto riguarda la tutela dell’incolumità dei propri cittadini. Sia chiaro: non sono in grado di affermare se la trattativa vi sia o non vi sia stata; e se, qualora effettivamente intrapresa, vi siano stati atti di collusione con la criminalità organizzata, tali da configurare precise fattispecie penali. Ma so che, a distanza di due decenni, e per ciò che finora abbiamo appreso, e per le differenti conclusioni tratte dalle diverse procure, l’intera questione andrebbe valutata con criteri esclusivamente politici. Ora, in questo quadro storico-investigativo interviene una importante novità. Claudia Fusani, sull’Unità, spiega tutto molto bene, partendo dall’analisi critica di ciò che –nelle ricostruzioni della procura di Palermo, nelle anticipazioni finora emerse,  e, ancor più, nella mitologia che ne è derivata – costituirebbe la posta in gioco di quella stessa trattativa. Ovvero, la mancata proroga della misura del 41 bis per 520 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. La sospensione del 41 bis per centinaia di reclusi altamente pericolosi sarebbe stata la contropartita richiesta – all’interno di quel negoziato – dall’ organizzazione mafiosa; e a quella sospensione, l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso sarebbe arrivato sia perché direttamente coinvolto nell’ operazione sia perché sottoposto a pressioni da diversi soggetti (e, tra essi, l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). Ora emergono alcuni elementi, evidenziati dall’attività della Commissione parlamentare antimafia, che meritano la massima attenzione. Il 12 marzo scorso, il sostituto procuratore di Firenze Nicolosi, nel corso della sua audizione, ha dichiarato che la revoca del 41 bis sarebbe stata “indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra: non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. È un’affermazione, come detto, dirompente rispetto ad un diffuso senso comune che si è depositato in questi ultimi anni; certo, altre procure (quella di Palermo e, in qualche misura, quella di Caltanisetta) contestano quella valutazione: ma già questa radicale divergenza di opinioni tra gli inquirenti segnala la difficoltà di giungere a conclusioni nette quali quelle che sembrano oggi prevalere. A ciò si aggiunga un altro dato, ancora più significativo. A beneficiare della mancata conferma del 41 bis sarebbero stati 520 detenuti e, su questo dato impressionante è stata costruita molta della capacità di suggestione nei confronti dell’opinione pubblica che il tema della trattativa richiama. Ma proprio qui casca l’asino. L’elenco dei 520 è stato sottoposto a una meticolosa disamina da parte dei consulenti della Commissione antimafia e, ancor prima, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che nel gennaio del 2011 inviò una relazione in merito alla Procura di Palermo. È emerso, così, che di quei 520 beneficiari, appena uno su 12 (44) avrebbe avuto rinnovata, in una fase successiva e a una ulteriore e rigorosa verifica, la misura del 41 bis. E di quei 44 meno di una decina rivelerebbero “un elevato profilo criminale”. Tale valutazione risulta confermata da quella precedente indagine, a opera del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che viene resa nota oggi dall’Unità. In altre parole, sia il Dap che i consulenti della Commissione antimafia concordano nel ritenere che il 41 bis, allora adottato per la prima volta, venne applicato con eccessiva larghezza e in maniera assai estensiva. E sembra che, tra coloro ai quali il 41 bis fu sospeso per decisione del Ministro Conso (334), appena 23 fossero siciliani. Il che, certamente, non annulla, ma senza dubbio attenua, la rilevanza dell’interesse della mafia per la loro declassificazione e per il loro ritorno a un regime carcerario ordinario. E va ricordato che, per 8 di essi, fu lo stesso Conso successivamente a ripristinare il “carcere duro”. In conclusione, sembra di potersi dire che, ancora una volta, la matematica valga più della retorica.

il Foglio 16 ottobre 2012
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