La crisi non oscuri il bene libertà
Luigi Manconi
Cinque anni fa, quando venne approvata la misura dell’indulto, l’allarme sulla sicurezza delle città e dei cittadini era già un fattore significativo nella formazione dell’opinione pubblica. Ma fu proprio il provvedimento di clemenza a portare quell’allarme fino a livelli parossistici.
Molte sono le ragioni che inducono a ritenere quella diffusa ansia collettiva come il prodotto di una vera e propria manipolazione del senso comune. E, infatti, com’è possibile che la crescita abnorme della sensazione di vivere sotto una minaccia criminale si registri nel momento in cui le statistiche dei reati segnalano esattamente l’opposto? E nel momento in cui il numero degli omicidi volontari si riduce a un terzo di quello registrato vent’anni prima. Sono tante, evidentemente, le ragioni di questa alterazione della vista. Ma qui mi limito a ricordare che - come ha documentato Gianni Betto, direttore del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva - proprio in quel periodo la «copertura» assicurata ai «fatti criminali» dalle emittenti televisive nazionali, passa dall’11% al 23% del tempo complessivo.
Ora non è più così. Quello attuale è un tempo in cui le questioni dell’ordine pubblico sembrano assumere una importanza e uno spazio informativo assai più ridotti. Un motivo c’è: nel pieno di una crisi economica, è la crisi economica a dominare, e a determinare le angosce collettive e le strategie individuali, a occupare lo spazio pubblico e le fantasie delle persone, a condizionare le aspettative e a bruciare le speranze.
È come se non ci fosse tempo e spazio per null’altro. E così, sgomitando e strattonando i vicini, diventando fatalmente molesti e persino un po’ queruli, si vogliono qui ricordare alcune questioni di ordine pubblico, indipendenti dalla crisi economica e viste per una volta da una prospettiva inconsueta. Tre questioni che corrispondono ad altrettanti virtuosi e istruttivi aneddoti.
1) La storia di Adama. Una settimana fa, finalmente, Adama Kebe è uscita dal centro di identificazione ed espulsione di Bologna e ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Lo scorso agosto aveva denunciato le violenze subite per mano del suo ex compagno, ma non era stata ascoltata e, in quanto irregolare, era stata portata nel Cie. Un caso particolarmente eclatante, ma tutt’altro che raro, dove l’ottusità burocratica si combina con una evidente indifferenza per la condizione della vittima, e con un sostanziale disprezzo verso le garanzie previste dal nostro ordinamento, a tutela di chiunque si trovi sul territorio italiano. Per una volta, la vicenda si è risolta positivamente, così come quella di El Haddeji.
2. La storia di El Haddeji. Agli inizi di quest’anno il giovane tunisino arriva a Lampedusa e, da qui, risale l’Italia fino all’Umbria dove verrà fermato dai carabinieri. Nonostante sostenga di non essere maggiorenne non viene creduto e si ritrova così nel Cie di Ponte Galeria. El Haddeji è nato a Tunisi il 20 settembre del 1994, ma nei verbali del suo trattenimento, la data viene anticipata al 1993. Un vero e proprio falso per aggirare la legge, che non permette il trattenimento di minori nei Cie. Dunque, col suo documento vero che dimostra l’abuso subito, El Haddeji si trova in un Cie a causa di un documento falso voluto dalle autorità italiane.
Solo con grande ritardo, la notizia viene trasmessa in maniera rocambolesca all’esterno e, grazie all’intervento dell’avvocato Maria Rosaria Calderone di A Buon Diritto Onlus e agli articoli pubblicati da Salvatore Maria Righi sull’Unità, El Haddeji viene liberato.
3. La storia di Salvatore Barbera. Il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, ha comunicato che, a partire dal 7 dicembre, è diventato esecutivo per Barbera, responsabile della campagna sul Clima, il «rimpatrio con foglio di via obbligatorio» (è scritto proprio così) nel comune di residenza (Pistoia), e «il divieto di ritornare nel comune di Roma per anni due».
È quanto previsto dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza risalenti al 1931, inopinatamente utilizzato per colpire una legittima attività politica (una manifestazione di Greenpeace davanti a Palazzo Chigi). Era già successo nel 2007 a Brindisi, quando dopo un’azione di protesta contro la centrale a carbone, a dodici attivisti fu ingiunto il divieto di ritornare a Brindisi per tre anni. Pochi mesi dopo, il Tar annullava quel provvedimento. E analogamente si è comportato il Tar del Lazio lo scorso settembre. Cosa hanno in comune episodi così diversi, che vanno a colpire - o comunque a non tutelare - persone tanto differenti l’una dall’altra? La sottovalutazione grave e persistente di quel bene prezioso - il più prezioso negli ordinamenti democratici - che è la libertà individuale. Da tenere cara, molto cara, anche in tempi di crisi economica.
La crisi non oscuri il bene libertà
Luigi Manconi
Cinque anni fa, quando venne approvata la misura dell’indulto, l’allarme sulla sicurezza delle città e dei cittadini era già un fattore significativo nella formazione dell’opinione pubblica. Ma fu proprio il provvedimento di clemenza a portare quell’allarme fino a livelli parossistici.
Molte sono le ragioni che inducono a ritenere quella diffusa ansia collettiva come il prodotto di una vera e propria manipolazione del senso comune. E, infatti, com’è possibile che la crescita abnorme della sensazione di vivere sotto una minaccia criminale si registri nel momento in cui le statistiche dei reati segnalano esattamente l’opposto? E nel momento in cui il numero degli omicidi volontari si riduce a un terzo di quello registrato vent’anni prima. Sono tante, evidentemente, le ragioni di questa alterazione della vista. Ma qui mi limito a ricordare che - come ha documentato Gianni Betto, direttore del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva - proprio in quel periodo la «copertura» assicurata ai «fatti criminali» dalle emittenti televisive nazionali, passa dall’11% al 23% del tempo complessivo.
Ora non è più così. Quello attuale è un tempo in cui le questioni dell’ordine pubblico sembrano assumere una importanza e uno spazio informativo assai più ridotti. Un motivo c’è: nel pieno di una crisi economica, è la crisi economica a dominare, e a determinare le angosce collettive e le strategie individuali, a occupare lo spazio pubblico e le fantasie delle persone, a condizionare le aspettative e a bruciare le speranze.
È come se non ci fosse tempo e spazio per null’altro. E così, sgomitando e strattonando i vicini, diventando fatalmente molesti e persino un po’ queruli, si vogliono qui ricordare alcune questioni di ordine pubblico, indipendenti dalla crisi economica e viste per una volta da una prospettiva inconsueta. Tre questioni che corrispondono ad altrettanti virtuosi e istruttivi aneddoti.
1) La storia di Adama. Una settimana fa, finalmente, Adama Kebe è uscita dal centro di identificazione ed espulsione di Bologna e ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Lo scorso agosto aveva denunciato le violenze subite per mano del suo ex compagno, ma non era stata ascoltata e, in quanto irregolare, era stata portata nel Cie. Un caso particolarmente eclatante, ma tutt’altro che raro, dove l’ottusità burocratica si combina con una evidente indifferenza per la condizione della vittima, e con un sostanziale disprezzo verso le garanzie previste dal nostro ordinamento, a tutela di chiunque si trovi sul territorio italiano. Per una volta, la vicenda si è risolta positivamente, così come quella di El Haddeji.
2. La storia di El Haddeji. Agli inizi di quest’anno il giovane tunisino arriva a Lampedusa e, da qui, risale l’Italia fino all’Umbria dove verrà fermato dai carabinieri. Nonostante sostenga di non essere maggiorenne non viene creduto e si ritrova così nel Cie di Ponte Galeria. El Haddeji è nato a Tunisi il 20 settembre del 1994, ma nei verbali del suo trattenimento, la data viene anticipata al 1993. Un vero e proprio falso per aggirare la legge, che non permette il trattenimento di minori nei Cie. Dunque, col suo documento vero che dimostra l’abuso subito, El Haddeji si trova in un Cie a causa di un documento falso voluto dalle autorità italiane.
Solo con grande ritardo, la notizia viene trasmessa in maniera rocambolesca all’esterno e, grazie all’intervento dell’avvocato Maria Rosaria Calderone di A Buon Diritto Onlus e agli articoli pubblicati da Salvatore Maria Righi sull’Unità, El Haddeji viene liberato.
3. La storia di Salvatore Barbera. Il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, ha comunicato che, a partire dal 7 dicembre, è diventato esecutivo per Barbera, responsabile della campagna sul Clima, il «rimpatrio con foglio di via obbligatorio» (è scritto proprio così) nel comune di residenza (Pistoia), e «il divieto di ritornare nel comune di Roma per anni due».
È quanto previsto dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza risalenti al 1931, inopinatamente utilizzato per colpire una legittima attività politica (una manifestazione di Greenpeace davanti a Palazzo Chigi). Era già successo nel 2007 a Brindisi, quando dopo un’azione di protesta contro la centrale a carbone, a dodici attivisti fu ingiunto il divieto di ritornare a Brindisi per tre anni. Pochi mesi dopo, il Tar annullava quel provvedimento. E analogamente si è comportato il Tar del Lazio lo scorso settembre. Cosa hanno in comune episodi così diversi, che vanno a colpire - o comunque a non tutelare - persone tanto differenti l’una dall’altra? La sottovalutazione grave e persistente di quel bene prezioso - il più prezioso negli ordinamenti democratici - che è la libertà individuale. Da tenere cara, molto cara, anche in tempi di crisi economica.
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