Fini debole forte
Politicamente correttissimo
Luigi Manconi
Tutti i commenti (ostili, favorevoli, così così) al videomessaggio di Gianfranco Fini, hanno trascurato quello che costituisce, a mio parere, un elemento decisivo. Fatalmente la politologia da quotidiano si traduce in retroscenismo e fiction oppure in trama e complottismo. Accade così che – nell’epoca detta della “personalizzazione della politica” – è proprio la persona (il “fattore umano”) che viene ignorata.
O meglio: il racconto della personalizzazione si riduce alla descrizione espressionistica o iperrealista dei tratti più superficiali e “consumistici” e, alla resa dei conti, banali del protagonismo narcisistico dei leader, quando non all’anamnesi di patologie e tic. Il che è comprensibile, ovviamente, ma ciò porta a trascurare – come è accaduto in questo caso – elementi assai più significativi. Consideriamo, di quell’intervento, i seguenti passaggi: “solo dopo la vendita ho saputo che in quella casa viveva il Signor Tulliani. Il fatto mi ha provocato un'arrabbiatura colossale (…). Non potevo certo costringerlo ad andarsene, ma certo gliel'ho chiesto e con toni tutt'altro che garbati. Spero lo faccia, se non altro per restituire un po’ di serenità alla mia famiglia”. E Fini si chiede: “Ho sbagliato? Con il senno di poi mi devo rimproverare una certa ingenuità”. E infine: “anche io mi chiedo (…) chi è il vero proprietario della casa? È Tulliani, come tanti pensano? Non lo so. Gliel'ho chiesto con insistenza: egli ha sempre negato con forza, pubblicamente e in privato. (…) E se dovesse emergere con certezza (…) che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera”. Che Fini piaccia o meno, va notata in ogni caso la novità del suo messaggio. Per la  prima volta in un discorso pubblico, e di una carica istituzionale tanto elevata, la personalizzazione e, dunque, il manifestarsi della soggettività del politico, si esprime non come strategia per l’affermazione di una forza, bensì come enunciazione (confessione) di una debolezza. Certo, gli ostili diranno che anche in tal caso si tratta del prodotto di una strategia, ma resta da evidenziare la novità che comporta. Tutte le manifestazioni della personalità e del carattere nel discorso pubblico (dal “non ci sto” di Oscar Luigi Scalfaro ai riferimenti al cancro da parte di Silvio Berlusconi), anche quando alludono a sofferenze, si risolvono in una affermazione di potenza: dall’ammissione di un disagio per attacchi ingiusti subiti, che si respingono con forza (Scalfaro), al richiamo a una grave malattia che tuttavia sarebbe stata vinta (Berlusconi). In un caso come nell’altro – pur se agli antipodi sotto tutti i profili - la dichiarazione di debolezza prepara un’affermazione di forza. Così non è, nel caso del messaggio di Fini. Qui, al contrario, le parole relative sia alla propria buona fede che alla correttezza dei propri atti anticipano il riconoscimento di un deficit e l’ammissione di un limite, di una carenza, di un errore. Non so se quel messaggio abbia funzionato. So che si tratta di una novità che allude a una interpretazione diversa del ruolo della personalizzazione; e non è escluso nemmeno che ciò possa risolversi infine in una risorsa. L’interrogativo è il seguente. I cittadini/elettori soni disponibili ad apprezzare la debolezza di un leader e ad accogliere l’elemento di verità che essa contiene? Con ciò non voglio dire, sia chiaro, che Fini sia “più sincero”, non spetta a me deciderlo, di Claudio Scajola, a sua volta impegnato a  parlare di immobili, dico solo che ho creduto di avvertire nelle parole di Fini un elemento di autenticità – tanto più perché rivelavano, sullo sfondo, un ambiente domestico verosimilmente assai inquieto. Oltretutto, in altre precedenti circostanze, la manifestazione della debolezza – raramente riconosciuta dall’interessato – aveva sempre anticipato non solo l’apertura di una crisi, ma anche l’annuncio di un fallimento irreversibile. Non qui. Anche nell’ipotesi più negativa per Fini – quella di dover dare le dimissioni – non saremmo in presenza di una sconfitta irreparabile: e il riconoscimento della debolezza potrebbe rivelarsi, nei tempi lunghi, un’opportunità. Tutto ciò segnala una nuova fisionomia dei processi di personalizzazione della leadership? Probabilmente no. Nel panorama italiano, la forza nella sua accezione più convenzionale (come negazione della debolezza), sembra essere tuttora la sola virtù politica capace di attrarre consensi. Eppure non è dovunque così nel mondo e non sempre è stato così nella storia. Silvio Berlusconi ha avuto una simile opportunità, ma non l’ha voluta utilizzare. Avrebbe potuto fare delle proprie fragilità (dalla malattia alla, come definirla?, erotomania) un’occasione per rendere la gestione del potere qualcosa di più interessante di un mero esercizio autoritario: qualcosa di più complesso e seducente, di più attraente e “femminile”. Il che lo avrebbe reso mille volte più simpatico di quanto abbia fatto il suo esausto repertorio di barzellette. Così non è stato e Berlusconi ha preferito proporsi come un incontinente smargiasso. Forse ha ragione lui, ma non è più così divertente.  
il Foglio 28 settembre 2010
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