Scarti sociali
Luigi Manconi
In carcere ci si toglie la vita 15-17 volte più di quanto si faccia fuori dal carcere. Nel corso del 2009 i suicidi sono stati già 61: se tale ritmo dovesse continuare, avremmo alla fine dell’anno il più alto numero di suicidi degli ultimi due decenni.

Ci si ammazza, in carcere, con tutte le modalità che fantasia e disperazione suggeriscono: fornelletto a gas, chiodi e pezzi di vetro, autosoffocamento, impiccagione. A quest’ultimo metodo ha fatto ricorso Diana Blefari.


La domanda semplice, quasi elementare, è: perché mai si trovava nel carcere di Rebibbia e non in una struttura psichiatrica protetta? Si intende: una struttura da cui non potere evadere e in cui scontare il suo ergastolo, ma curata per i gravi problemi psichici che, da molto tempo, aveva manifestato. E che decine di perizie medico-legali avevano documentato. Al punto che, quando mi trovai – tra il 2006 e il 2008 – ad avere la responsabilità politica del sistema penitenziario, sollecitai la sua assegnazione a un regime detentivo che ne garantisse la “sorveglianza a vista 24 ore su 24”.

Dunque, altro che suicidio annunciato. E’ stato un atto dichiarato, proclamato, per così dire atteso.

Come in tanti altri casi, dove i reiterati tentativi di suicidio non ottengono una vigilanza sufficiente a sventare l’ultimo, quello definitivo.

E così, nel corso di appena una settimana, dal sistema penitenziario italiano sono arrivate tre terribili notizie: oltre a quella su Diana Blefari, la via crucis di Stefano Cucchi e quell’incredibile dialogo nel carcere di Teramo, dove il comandante da istruzioni a un sottoposto su come “picchiare” i detenuti in assenza di testimoni.

In tutti questi casi, c’è un tabù che fatica a emergere: ed è l’idea che ciò possa accadere perché le vittime, alla resa dei conti,  sono degli scarti sociali.

E’ ovvio: la coscienza democratica, di destra e di sinistra, mai si pronuncerà in questi termini, ma – a ben vedere – a questo tende l’orientamento di senso comune che, dopo il primo momento di emozione, sembra dominare.

Stefano Cucchi: tossicomane, epilettico, piccolo spacciatore, forse sieropositivo; Diana Blefari: quella che pedina Marco Biagi e contribuisce attivamente al suo omicidio.

Il primo socialmente inerme ed esposto alla marginalità, la seconda inequivocabilmente colpevole di un crimine efferato. Siamo sicuri, ma proprio sicuri – è questo il dubbio che si insinua nella mentalità collettiva – che meritino tutte le garanzie e tutti i diritti che spettano a quegli irreprensibili che noi siamo? La risposta è scontata, ma non per questo meno faticosa da elaborare e, soprattutto, da sostenere fino in fondo. Ogni vita in sé merita il massimo di tutela e quella tutela ha da essere ancora più salda quando la possibile vittima, a prescindere dal suo passato e da suo curriculum penale, è affidata alla custodia dello Stato. Da quel momento, quella vita dev’essere sacra per chi (lo Stato e i suoi apparati) la riceve nelle proprie mani.

Non solo. Il sistema delle garanzie è indivisibile: ridurre un diritto di Diana Blefari significa accettare un processo che porta, fatalmente, alla riduzione di un diritto equivalente per il più incensurato e integrato dei cittadini.

Dunque, come hanno affermato uomini saggi, la qualità di una democrazia la si verifica all’interno delle sue galere.
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