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Immacolati e pregiudicati
Luigi Manconi
La scena, vista nel corso di Annozero, è sommamente istruttiva: l’uno di fronte all’altro, Niccolò Ghedini, avvocato e parlamentare del PdL, e il giornalista Marco Travaglio. Il primo accusa il secondo di essere un “pregiudicato” in quanto condannato per diffamazione; il secondo sventola il proprio  Casellario giudiziario che  definisce “immacolato”, privo cioè di condanne. Ghedini, a sua volta, risponde che quel documento non riporta le sentenze di primo grado, che sarebbero state inflitte a Travaglio. Pertanto, il match si conclude alla pari, e il pubblico pagante mostra di non apprezzare quello che Gianni Brera chiamava “il risultato perfetto”, ovvero lo 0 a 0. Quello scambio solleva un quesito: e se, invece, Travaglio avesse una condanna definitiva? Forse che, solo per questo, sarebbe meno titolato a muovere le sue accuse all’avversario? Per me, ovviamente no: e per qualunque serio garantista, ma anche per chiunque consideri la lotta politica altra cosa rispetto ai “mattinali di questura”, e al “Forum” del non dimenticato Sante Licheri. È piuttosto lo stesso Travaglio, coerentemente con la propria ideologia, che dovrebbe considerarsi interdetto dal poter muovere accuse, in caso di condanna definitiva: o meglio già al momento in cui ricevesse un’informazione di garanzia. Cosa che io ritengo un abominio giuridico, mentre è Travaglio a considerarlo un fattore di legalità. Si dirà: ma i giornalisti che coltivano una concezione sostanzialista del diritto non sono rappresentanti del popolo, per i quali ultimi sarebbe richiesto un surplus di prudenza e maggiore rigore politico-giudiziario. Non è così per tre ragioni: perché l’azione pubblica può comportare atti amministrativi tali da determinare indagini della magistratura; perché l’attività politica può indurre alla violazione di regole e norme, e - quando non è motivato da interesse privato, bensì da una buona causa – ciò non è meritevole di riprovazione morale; perché chiunque può essere vittima di un errore giudiziario. Da settimane, mi capita di scrivere a favore della candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della Campania: sia perché l’interessato non ha finora riportato alcuna condanna, sia perché  ha sempre indicato nella necessità di difendere il posto di lavoro di 200 operai la motivazione dei reati imputatigli. Il quotidiano Il Fatto risponde: “è una superballa” e racconta come in quelle vicende giudiziarie trovino posto interessi personali e clientelari di un gruppo di potere, che farebbe capo a De Luca. Ma questa è la tesi dell’accusa. Tuttavia, ciò che più mi colpisce è che tutte le critiche rimandino a quella condizione di “indagato”. E a ciò si limitino. È, alla lettera, una abdicazione della politica: e, infatti, a De Luca, non viene contestato ciò che andrebbe contestato, e che io contesto. Ovvero l’aver assunto, in più circostanze, posizioni di destra (sulla sicurezza, sull’ordine pubblico, sull’immigrazione …). Ne risulta confermato che  una impostazione tutta e solo legalitaria porta esiti paradossali: riduce l’azione pubblica alla sola dimensione giudiziaria, sacrifica le domande di diritti e di libertà a un tetro richiamo all’ordine, mortifica la politica  a un cupo conflitto tra opposti casellari giudiziari. Ma proprio nel momento dell’apparente trionfo, si consuma il fallimento del giustizialismo, al punto che il suo tonitruante alfiere – Antonio Di Pietro – vi deve rinunciare per un momento senza alcuna spiegazione esauriente: sulla base di un calcolo politicistico. Esito malinconico, ma prevedibile di una cultura politica tutta fondamentalmente di destra: non a caso, Di Pietro assicura che se De Luca non rispetterà il patto sottoscritto, dopo Mani Pulite vi sarà “Mani tagliate” (si dirà: è solo una metafora ironica, ma possibile che non gli venga mai in mente qualcosa di diverso dal più truce linguaggio sbirresco?).
E torniamo a quel “pregiudicato”. Ad esempio Marco Pannella e altri militanti radicali sono stati condannati in via definitiva per aver distribuito derivati della canapa indiana. Qualche giorno fa un giudice di Avezzano ha autorizzato la somministrazione gratuita di farmaci a base di cannabinoidi a un malato di sclerosi multipla. Ma chi fa politica non avrebbe dovuto sentire il dovere, ancor prima di quella ordinanza, di violare la legge per tutelare il diritto alla libertà di cura per quel malato?
Intanto, Di Pietro viene criticato da De Magistris che viene criticato da Travaglio che viene criticato da Grillo che viene criticato da Sonia Alfano e più in là, sullo sfondo, un corrucciatissimo Elio Veltri … giova ripeterlo: c’è sempre un puro più puro che epura.
l'Unità del 12 febbraio 2010
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