Memorandum sul "delitto della pena" carceraria a uso dei parlamentari distratti
Luigi Manconi
Che ogni delitto abbia la sua pena è scritto nel suo stesso esser delitto: non si dà delitto senza pena, senza la pena della vittima o della comunità che ne viene offesa, così come senza la pena del reo, condannato a una qualche forma di sofferenza legale proprio dal fatto che quella offesa sia qualificata come un delitto. Ma questa associazione tra delitto e pena può essere anche ribaltata, per scoprire che la pena stessa può risolversi in un delitto, in una combinazione di azione e reazione che può condurre in un vortice di violenza senza fine. E’ questa la preoccupazione che ha spinto Franco Corleone e Andrea Pugiotto a raccogliere in volume le relazioni, i commenti e le repliche a un ciclo di incontri tenutisi a Ferrara lo scorso anno e dedicati, appunto, a Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere (Ediesse, 2012).
«Bisogna aver visto», rammentano i curatori, richiamando il testo di Piero Calamandrei che, nel 1949, apriva un numero speciale de Il Ponte dedicato alle carceri italiane all’indomani della Liberazione (e scaricabile integralmente dal sito della Rassegna penitenziaria e criminologica del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/89.pdf). In quel numero de Il Ponte si trovavano testimonianze e proposte di padri della Patria (da Leone Ginzburg a Giancarlo Pajetta, da Vittorio Foa ad Altiero Spinelli) che delle galere fasciste furono ospiti nel ventennio precedente. Bisogna aver visto e testimoniare quel che si è visto. Questo ha fatto a più riprese il Presidente Napolitano, che nel fondamentale discorso al convegno promosso dai radicali lo scorso anno e pubblicato in appendice a questo libro, pronunciò parole insuperabili sullo stato delle carceri italiane: «una questione di prepotente urgenza». E ancora: «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso di togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo».
Questa condizione di degrado «non è un’opinione, né un retroscena», scrivono Corleone e Pugiotto: «è un fatto» con cui bisogna fare i conti, anche per non esserne complici. E’ ancora del Capo dello Stato l’appello a rifletterci «seriamente, e presto, da ogni parte». Questo “da ogni parte” ha sollecitato la sensibilità di Andrea Pugiotto, promotore del ciclo di incontri ferraresi da cui nasce il libro e poi dell’appello  dei docenti universitari di Diritto e dei garanti dei detenuti al Presidente della Repubblica affinchè sollecitasse il Parlamento ad azioni conseguenti alla gravità della situazione.
Dal volume emerge un percorso di lettura intorno ai luoghi estremi del carcere, laddove il delitto e la pena cambiano la loro ordinaria consecutio logica: la condizione delle vittime, tra memoria e dolore; la pena di morte e la morte civile dell’ergastolo; i troppo frequenti decessi in stato di privazione della libertà, anche per responsabilità di chi avrebbe dovuto tutelarne l’integrità fisica.
Non mancano, nell’introduzione dei curatori, indicazioni su «le cose da fare, subito», come scriveva Ernesto Rossi nella raccolta de Il Ponte, prima citata e su quelle da fare dopo, per una riforma organica del sistema delle pene. Intanto, però, occorre dare testimonianza di ciò che si è visto e convincere chi voglia ascoltare che si tratta – effettivamente - di una questione di prepotente urgenza.  Oltre al Capo dello Stato, sembrano esserne convinti –provvidenzialmente – altri. Questo giornale, per esempio, e gran parte dei direttori delle carceri; e, poi, moltissimi avvocati e molti magistrati (o ex magistrati, come, se non sbaglio, Gherardo Colombo) e –per dirne una – la Conferenza episcopale italiana. Vi sembra che manchi qualcuno? Beh, sì, esattamente coloro che hanno il potere (e il dovere) di intervenire sul piano legislativo; e che, non a caso, la politologia chiama decisori politici. Con la sola eccezione dei radicali, di un gruppetto di democratici e di qualche temerario esponente del Pdl, il parlamento continua a mostrarsi straordinariamente sordo. E, agitando lo stendardo del benaltrismo  (“ben altri sono i provvedimenti da prendere”) respinge la strategia più semplice e saggia. Ovvero, quella di introdurre in un sistema, reso parossistico dal riprodursi all’infinito dell’emergenza, un po’ di normalità: attraverso due strumenti costituzionalmente previsti come l’amnistia e l’indulto. Per poi, deflazionata e resa fisiologica la situazione, intervenire con le riforme di struttura sempre auspicate e mai realizzate. Ma tutto ciò è troppo ragionevole per esser preso in considerazione.
il Foglio 25 ottobre 2012
Memorandum sul "delitto della pena" carceraria a uso dei parlamentari distratti
Luigi Manconi
Che ogni delitto abbia la sua pena è scritto nel suo stesso esser delitto: non si dà delitto senza pena, senza la pena della vittima o della comunità che ne viene offesa, così come senza la pena del reo, condannato a una qualche forma di sofferenza legale proprio dal fatto che quella offesa sia qualificata come un delitto. Ma questa associazione tra delitto e pena può essere anche ribaltata, per scoprire che la pena stessa può risolversi in un delitto, in una combinazione di azione e reazione che può condurre in un vortice di violenza senza fine. E’ questa la preoccupazione che ha spinto Franco Corleone e Andrea Pugiotto a raccogliere in volume le relazioni, i commenti e le repliche a un ciclo di incontri tenutisi a Ferrara lo scorso anno e dedicati, appunto, a Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere (Ediesse, 2012).
«Bisogna aver visto», rammentano i curatori, richiamando il testo di Piero Calamandrei che, nel 1949, apriva un numero speciale de Il Ponte dedicato alle carceri italiane all’indomani della Liberazione (e scaricabile integralmente dal sito della Rassegna penitenziaria e criminologica del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/89.pdf). In quel numero de Il Ponte si trovavano testimonianze e proposte di padri della Patria (da Leone Ginzburg a Giancarlo Pajetta, da Vittorio Foa ad Altiero Spinelli) che delle galere fasciste furono ospiti nel ventennio precedente. Bisogna aver visto e testimoniare quel che si è visto. Questo ha fatto a più riprese il Presidente Napolitano, che nel fondamentale discorso al convegno promosso dai radicali lo scorso anno e pubblicato in appendice a questo libro, pronunciò parole insuperabili sullo stato delle carceri italiane: «una questione di prepotente urgenza». E ancora: «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso di togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo».
Questa condizione di degrado «non è un’opinione, né un retroscena», scrivono Corleone e Pugiotto: «è un fatto» con cui bisogna fare i conti, anche per non esserne complici. E’ ancora del Capo dello Stato l’appello a rifletterci «seriamente, e presto, da ogni parte». Questo “da ogni parte” ha sollecitato la sensibilità di Andrea Pugiotto, promotore del ciclo di incontri ferraresi da cui nasce il libro e poi dell’appello  dei docenti universitari di Diritto e dei garanti dei detenuti al Presidente della Repubblica affinchè sollecitasse il Parlamento ad azioni conseguenti alla gravità della situazione.
Dal volume emerge un percorso di lettura intorno ai luoghi estremi del carcere, laddove il delitto e la pena cambiano la loro ordinaria consecutio logica: la condizione delle vittime, tra memoria e dolore; la pena di morte e la morte civile dell’ergastolo; i troppo frequenti decessi in stato di privazione della libertà, anche per responsabilità di chi avrebbe dovuto tutelarne l’integrità fisica.
Non mancano, nell’introduzione dei curatori, indicazioni su «le cose da fare, subito», come scriveva Ernesto Rossi nella raccolta de Il Ponte, prima citata e su quelle da fare dopo, per una riforma organica del sistema delle pene. Intanto, però, occorre dare testimonianza di ciò che si è visto e convincere chi voglia ascoltare che si tratta – effettivamente - di una questione di prepotente urgenza.  Oltre al Capo dello Stato, sembrano esserne convinti –provvidenzialmente – altri. Questo giornale, per esempio, e gran parte dei direttori delle carceri; e, poi, moltissimi avvocati e molti magistrati (o ex magistrati, come, se non sbaglio, Gherardo Colombo) e –per dirne una – la Conferenza episcopale italiana. Vi sembra che manchi qualcuno? Beh, sì, esattamente coloro che hanno il potere (e il dovere) di intervenire sul piano legislativo; e che, non a caso, la politologia chiama decisori politici. Con la sola eccezione dei radicali, di un gruppetto di democratici e di qualche temerario esponente del Pdl, il parlamento continua a mostrarsi straordinariamente sordo. E, agitando lo stendardo del benaltrismo  (“ben altri sono i provvedimenti da prendere”) respinge la strategia più semplice e saggia. Ovvero, quella di introdurre in un sistema, reso parossistico dal riprodursi all’infinito dell’emergenza, un po’ di normalità: attraverso due strumenti costituzionalmente previsti come l’amnistia e l’indulto. Per poi, deflazionata e resa fisiologica la situazione, intervenire con le riforme di struttura sempre auspicate e mai realizzate. Ma tutto ciò è troppo ragionevole per esser preso in considerazione.
il Foglio 25 ottobre 2012
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