Matteo Manzitti *

Chi come me si è diplomato in composizione al Conservatorio e sente di appartenere al solco della “musica colta”, si trova, a meno che un marcato autismo culturale non lo protegga, in una situazione di disagio a operare nel mondo di oggi. La discografia, ma direi l’industria musicale nel suo complesso, prima di intervenire nella strutturazione di un “orecchio collettivo” (che comunque fatica a costruire) ha soprattutto determinato un cambio dell’immaginario che circonda le categorie della musica, e nello specifico dei suoi generi.
La musica colta, che spesso viene anche chiamata “classica” è essenzialmente rappresentata, nell’immaginario comune, da un insieme di partiture musicali, quindi di “testi” oggettivamente dati, che rivivono grazie al necessario lavoro degli esecutori, cioè degli strumentisti.
Si tratta quindi, nel senso comune, non tanto di una particolare pratica, non di una forma dell’intelligenza sempre attuabile, ma di un patrimonio culturale. Ecco l’immagine vera e propria che la musica colta ha: quella di un patrimonio culturale.
E come negare che per esempio il successo incredibile e crescente della tradizione lirica italiana a cui si assiste in questi anni nei paesi dell’Europa dell’est, in certo Sud America e soprattutto in Cina, Giappone e Corea, derivi proprio da quest’immagine e dal conseguente desiderio da parte di questi paesi di entrare in relazione con questo patrimonio come canale d’accesso privilegiato all’occidente europeo.
Se le cose stessero solo così allora potremmo chiaramente affermare che la musica “colta”ha la stessa natura della musica etnica, o ancor più del canto gregoriano, un ‘esperienza storicamente determinata, racchiusa in un rintracciabile intervallo di tempo, ma continuamente riproducibile grazie ai “testi” che la documentano, trascrivendone l’acustica attraverso un sistema di notazione che si è di conseguenza creato.
In questa prospettiva eminentemente cronologica, il novecento ha invece visto sorgere la “musica leggera”, termine sicuramente più inclusivo che esclusivo, proprio perché indica tutti quei nuovi linguaggi musicali che si sono serviti dei nuovi mezzi di riproduzione del suono e che grazie ad essi hanno raggiunto porzioni di popolazione molto più vaste.
È così? In parte sicuramente si, ma c’è qualcosa che sfugge a questa visione.
La prima cosa da dire è che la musica “colta” non è affatto finita, è cambiata, ma non terminata.
Ne abbiamo prova osservando il mondo della cosiddetta “musica contemporanea”, che nelle sue espressioni migliori e più affascinanti, riesce a mantenere quella densità e quella complessità rintracciabili nei grandi capolavori della tradizione.
La seconda è che invece la “musica leggera” non è certo un’invenzione del novecento, perché possiamo sicuramente dire che molti linguaggi sono sorti nel 900, possiamo sicuramente dire che nel novecento è nato il consumo musicale di massa, l’industria discografica, ma non possiamo dire che le funzioni a cui presiede la “musica leggera” non abbiano invece una storia secolare.
Queste ultime due precisazioni aprono lo spazio a una serie di temi di non facile trattazione, che però possono essere riassunti in una domanda-guida: è possibile tracciare la linea di una differenza che lungo la storia della musica europea possa essere individuata come spartiacque tra la “musica leggera” e la “musica colta”? Ora che, per dirla in parole povere, abbiamo detto che la prima non è così recente e la seconda non è così morta?
Massimo Donà nel suo “Filosofia della Musica” (ED. Bompiani.) prova distinguere il mondo del jazz dal mondo musicale cosiddetto “classico”, non tanto da un punto di vista linguistico, ma da un punto di vista filosofico.
Scrive Donà che “…mentre il musicista classico ha la fine in un inizio cui sempre ritorna fedele e da cui mai si sarà veramente allontanato, il jazzista testimonia al contrario un messianismo assolutamente irresolubile. Mai potendo egli riconoscere il Messia. Nessun Jazzista può pretendere tale impossibile riconoscimento, ma solo attenderlo, ossia riconoscerne l’aporetica promessa, il puro possest.”
Più avanti Donà si lancia addirittura in uno spettacolare parallelismo tra generi e filosofi: “ In Hegel (ossia, nella disposizione propria del musicista classico ) l’eterno, ossia l’inizio, è già da sempre de-finito, e annuncia tale compiutezza proprio nel processo infinito di una dialettica il cui non aver mai fine è segno del fatto che il percorrimento e la sua perenne contingenza sono già da sempre al sicuro…..Mentre in Fichte, ossia nello spirito che anima ogni espressione autenticamente Jazzistica, l’infinito è veramente se stesso solo nell’irrisolvibile e frammentaria parzialità vissuta per il tramite di una negazione che di nulla si ritiene mancante”.
A un’attenta analisi di queste parole ci si rende conto che Donà quando parla del “musicista classico” parla in realtà della vita interiore di un interprete e del suo rapporto con il testo musicale, quindi con un’ indubbia abilità speculativa, identifica un genere con una, anche se la più importante, delle sue condizioni. Così facendo, l’immagine della musica “colta” che ne viene è proprio quella del senso comune discussa prima: un patrimonio oggettivo, fisso, i cui unici rappresentanti sono i musicisti esecutori.
Proprio grazie a questa identificazione Donà evita di porsi la questione linguistica e la questione storica che chiaramente lo chiamerebbero a risolvere molti problemi, visto che è molto difficile sostenere che Hegel stia dietro a Bach come a Debussy e stia dietro a Stravinsky come a Schonberg (sempre che Donà consideri questi signori “musicisti classici”).
Ecco il punto, la musica “colta” è di difficile inquadramento perché a differenza dell’immagine comune che ha non è linguisticamente stabile, cioè il suo linguaggio sembra essere inserito in una “storia” in continua evoluzione.
Questo significa che gli altri generi non cambiano, non evolvono? Certo che no, ma i cambiamenti e le evoluzioni degli altri generi sono più che altro il frutto di fisiologiche variazioni di comportamento che la vita umana ha nel tempo, e non i fatti di una “storia”.
Se guardiamo all’imbarazzante conformismo della musica leggera dei nostri giorni e lo paragoniamo a ciò che veniva prodotto negli anni 60 e 70, non possiamo non dedurre che se anche ci fosse una “storia”, questa non ha di sicuro nessun potere di determinazione del futuro.
Non così è per la musica “colta”, perché la storia comincia ad acquisire potere dove vi è scrittura. Ed è la scrittura il luogo dove nasce questa musica. E’ la scrittura che ne determina la complessità, la stratificazione e la coerenza.
Questo non significa che gli altri generi non frequentino il luogo della scrittura, ma la scrittura negli altri generi è il luogo d’arrivo, non di partenza; è il luogo dove un’esperienza totalmente acustica viene semplicemente trascritta, conservando infatti lo stesso livello di complessità di un’esperienza non mediata dalla scrittura.
Ora ciò che può essere realmente interessante è chiedersi che cosa determini, che cosa produca questa differenza a livello percettivo, cioè se è possibile individuare anche una fenomenologia dell’ascolto sulla linea appena tracciata di questa differenza.
Quando “ascoltiamo una scrittura” che cosa ci succede? Generalmente, indipendentemente dal carattere della musica, ci troviamo a relazionarci con un materiale a-semantico ed espressivo come il suono, sottoposto però a una manipolazione che produce una complessità. Questa complessità è governata da intenti organizzativi dotati di una razionalità che consciamente o inconsciamente percepiamo. Questo attiva in noi contemporaneamente centri che di solito funzionano in maniera alternata, centri emotivi e centri razionali. L’a-semanticità del suono e la sua organizzazione complessa producono un’oggettivazione dei sentimenti che proviamo, che non sentiamo più come “nostri” ma come universali.
Quando ascoltiamo il secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, non sentiamo “raccontare” la contingenza della nostra storia, delle nostre esperienze, ma percepiamo qualcosa di più ampio che riguarda tutti e che esce dal contingente.
L’elemento a-semantico e l’elemento razionale contribuiscono infatti a farci uscire dalla nudità del solipsismo emotivo e di inquadrarci come parte di un insieme.
Se guardiamo a cosa ci accade ascoltando “la musica leggera” ci rendiamo conto che si tratta proprio del movimento inverso, la musica leggera crea un’identificazione intima che scatena la nostra unicità, la nostra peculiarità di individui, i nostri personali ricordi, le nostre personali emozioni, quindi la nostra contingenza vera e propria. Ecco un altro motivo del perché non può avere una “storia”, la musica leggera: perché la vita contingente è metastorica, la storia nasce infatti quando l’individuo trascende se stesso e partecipa alla vita pubblica.
Credo che sia altrettanto interessante notare come la musica leggera, in virtù della sua capacità di raccontare il contingente e soprattutto di “ancorarsi” ai ricordi personali, diventi, nel corso del tempo di un ascoltatore, una modalità di ritornare sul proprio vissuto.
Da qui credo nasca un’altra differenza: anche la musica “colta” può ricordarci qualcosa del nostro passato, ma la sua potenza oggettiva tende a sovrastare questi moti della mente e a obbligarci alla presenza.
Ecco perché è più facile ancorare a un’esperienza passata una canzone piuttosto che una sinfonia o un quartetto.
Ovviamente non si tratta di decidere cosa è meglio tra questi due mondi.
Si tratta di saper abitare la plasticità della musica essendo consapevoli della diversità di tutte le sue pratiche.
La musica leggera ricopre una funzione fondamentale, ma attenzione a chiamarla troppo frequentemente “arte”.
Si sente sempre più spesso dire che una cosa che provoca emozioni è arte, al che mi viene sempre voglia di rispondere che se le cose stanno così allora la suprema forma d’arte è la droga.
Trovo invece interessante rapportarsi alle tre caratteristiche che secondo il grande musicologo francese Jean Jacques Nattiez contraddistinguono un’autentica opera d’arte musicale: complessità, coerenza e intensità.
*Matteo Manzitti (Genova ..), compositore di musica.
Chi come me si è diplomato in composizione al Conservatorio e sente di appartenere al solco della “musica colta”, si trova, a meno che un marcato autismo culturale non lo protegga, in una situazione di disagio a operare nel mondo di oggi. La discografia, ma direi l’industria musicale nel suo complesso, prima di intervenire nella strutturazione di un “orecchio collettivo” (che comunque fatica a costruire) ha soprattutto determinato un cambio dell’immaginario che circonda le categorie della musica, e nello specifico dei suoi generi.
La musica colta, che spesso viene anche chiamata “classica” è essenzialmente rappresentata, nell’immaginario comune, da un insieme di partiture musicali, quindi di “testi” oggettivamente dati, che rivivono grazie al necessario lavoro degli esecutori, cioè degli strumentisti.
Si tratta quindi, nel senso comune, non tanto di una particolare pratica, non di una forma dell’intelligenza sempre attuabile, ma di un patrimonio culturale. Ecco l’immagine vera e propria che la musica colta ha: quella di un patrimonio culturale.
E come negare che per esempio il successo incredibile e crescente della tradizione lirica italiana a cui si assiste in questi anni nei paesi dell’Europa dell’est, in certo Sud America e soprattutto in Cina, Giappone e Corea, derivi proprio da quest’immagine e dal conseguente desiderio da parte di questi paesi di entrare in relazione con questo patrimonio come canale d’accesso privilegiato all’occidente europeo.
Se le cose stessero solo così allora potremmo chiaramente affermare che la musica “colta”ha la stessa natura della musica etnica, o ancor più del canto gregoriano, un ‘esperienza storicamente determinata, racchiusa in un rintracciabile intervallo di tempo, ma continuamente riproducibile grazie ai “testi” che la documentano, trascrivendone l’acustica attraverso un sistema di notazione che si è di conseguenza creato.
In questa prospettiva eminentemente cronologica, il novecento ha invece visto sorgere la “musica leggera”, termine sicuramente più inclusivo che esclusivo, proprio perché indica tutti quei nuovi linguaggi musicali che si sono serviti dei nuovi mezzi di riproduzione del suono e che grazie ad essi hanno raggiunto porzioni di popolazione molto più vaste.
È così? In parte sicuramente si, ma c’è qualcosa che sfugge a questa visione.
La prima cosa da dire è che la musica “colta” non è affatto finita, è cambiata, ma non terminata.
Ne abbiamo prova osservando il mondo della cosiddetta “musica contemporanea”, che nelle sue espressioni migliori e più affascinanti, riesce a mantenere quella densità e quella complessità rintracciabili nei grandi capolavori della tradizione.
La seconda è che invece la “musica leggera” non è certo un’invenzione del novecento, perché possiamo sicuramente dire che molti linguaggi sono sorti nel 900, possiamo sicuramente dire che nel novecento è nato il consumo musicale di massa, l’industria discografica, ma non possiamo dire che le funzioni a cui presiede la “musica leggera” non abbiano invece una storia secolare.
Queste ultime due precisazioni aprono lo spazio a una serie di temi di non facile trattazione, che però possono essere riassunti in una domanda-guida: è possibile tracciare la linea di una differenza che lungo la storia della musica europea possa essere individuata come spartiacque tra la “musica leggera” e la “musica colta”? Ora che, per dirla in parole povere, abbiamo detto che la prima non è così recente e la seconda non è così morta?
Massimo Donà nel suo “Filosofia della Musica” (ED. Bompiani.) prova distinguere il mondo del jazz dal mondo musicale cosiddetto “classico”, non tanto da un punto di vista linguistico, ma da un punto di vista filosofico.
Scrive Donà che “…mentre il musicista classico ha la fine in un inizio cui sempre ritorna fedele e da cui mai si sarà veramente allontanato, il jazzista testimonia al contrario un messianismo assolutamente irresolubile. Mai potendo egli riconoscere il Messia. Nessun Jazzista può pretendere tale impossibile riconoscimento, ma solo attenderlo, ossia riconoscerne l’aporetica promessa, il puro possest.”
Più avanti Donà si lancia addirittura in uno spettacolare parallelismo tra generi e filosofi: “ In Hegel (ossia, nella disposizione propria del musicista classico ) l’eterno, ossia l’inizio, è già da sempre de-finito, e annuncia tale compiutezza proprio nel processo infinito di una dialettica il cui non aver mai fine è segno del fatto che il percorrimento e la sua perenne contingenza sono già da sempre al sicuro…..Mentre in Fichte, ossia nello spirito che anima ogni espressione autenticamente Jazzistica, l’infinito è veramente se stesso solo nell’irrisolvibile e frammentaria parzialità vissuta per il tramite di una negazione che di nulla si ritiene mancante”.
A un’attenta analisi di queste parole ci si rende conto che Donà quando parla del “musicista classico” parla in realtà della vita interiore di un interprete e del suo rapporto con il testo musicale, quindi con un’ indubbia abilità speculativa, identifica un genere con una, anche se la più importante, delle sue condizioni. Così facendo, l’immagine della musica “colta” che ne viene è proprio quella del senso comune discussa prima: un patrimonio oggettivo, fisso, i cui unici rappresentanti sono i musicisti esecutori.
Proprio grazie a questa identificazione Donà evita di porsi la questione linguistica e la questione storica che chiaramente lo chiamerebbero a risolvere molti problemi, visto che è molto difficile sostenere che Hegel stia dietro a Bach come a Debussy e stia dietro a Stravinsky come a Schonberg (sempre che Donà consideri questi signori “musicisti classici”).
Ecco il punto, la musica “colta” è di difficile inquadramento perché a differenza dell’immagine comune che ha non è linguisticamente stabile, cioè il suo linguaggio sembra essere inserito in una “storia” in continua evoluzione.
Questo significa che gli altri generi non cambiano, non evolvono? Certo che no, ma i cambiamenti e le evoluzioni degli altri generi sono più che altro il frutto di fisiologiche variazioni di comportamento che la vita umana ha nel tempo, e non i fatti di una “storia”.
Se guardiamo all’imbarazzante conformismo della musica leggera dei nostri giorni e lo paragoniamo a ciò che veniva prodotto negli anni 60 e 70, non possiamo non dedurre che se anche ci fosse una “storia”, questa non ha di sicuro nessun potere di determinazione del futuro.
Non così è per la musica “colta”, perché la storia comincia ad acquisire potere dove vi è scrittura. Ed è la scrittura il luogo dove nasce questa musica. E’ la scrittura che ne determina la complessità, la stratificazione e la coerenza.
Questo non significa che gli altri generi non frequentino il luogo della scrittura, ma la scrittura negli altri generi è il luogo d’arrivo, non di partenza; è il luogo dove un’esperienza totalmente acustica viene semplicemente trascritta, conservando infatti lo stesso livello di complessità di un’esperienza non mediata dalla scrittura.
Ora ciò che può essere realmente interessante è chiedersi che cosa determini, che cosa produca questa differenza a livello percettivo, cioè se è possibile individuare anche una fenomenologia dell’ascolto sulla linea appena tracciata di questa differenza.
Quando “ascoltiamo una scrittura” che cosa ci succede? Generalmente, indipendentemente dal carattere della musica, ci troviamo a relazionarci con un materiale a-semantico ed espressivo come il suono, sottoposto però a una manipolazione che produce una complessità. Questa complessità è governata da intenti organizzativi dotati di una razionalità che consciamente o inconsciamente percepiamo. Questo attiva in noi contemporaneamente centri che di solito funzionano in maniera alternata, centri emotivi e centri razionali. L’a-semanticità del suono e la sua organizzazione complessa producono un’oggettivazione dei sentimenti che proviamo, che non sentiamo più come “nostri” ma come universali.
Quando ascoltiamo il secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, non sentiamo “raccontare” la contingenza della nostra storia, delle nostre esperienze, ma percepiamo qualcosa di più ampio che riguarda tutti e che esce dal contingente.
L’elemento a-semantico e l’elemento razionale contribuiscono infatti a farci uscire dalla nudità del solipsismo emotivo e di inquadrarci come parte di un insieme.
Se guardiamo a cosa ci accade ascoltando “la musica leggera” ci rendiamo conto che si tratta proprio del movimento inverso, la musica leggera crea un’identificazione intima che scatena la nostra unicità, la nostra peculiarità di individui, i nostri personali ricordi, le nostre personali emozioni, quindi la nostra contingenza vera e propria. Ecco un altro motivo del perché non può avere una “storia”, la musica leggera: perché la vita contingente è metastorica, la storia nasce infatti quando l’individuo trascende se stesso e partecipa alla vita pubblica.
Credo che sia altrettanto interessante notare come la musica leggera, in virtù della sua capacità di raccontare il contingente e soprattutto di “ancorarsi” ai ricordi personali, diventi, nel corso del tempo di un ascoltatore, una modalità di ritornare sul proprio vissuto.
Da qui credo nasca un’altra differenza: anche la musica “colta” può ricordarci qualcosa del nostro passato, ma la sua potenza oggettiva tende a sovrastare questi moti della mente e a obbligarci alla presenza.
Ecco perché è più facile ancorare a un’esperienza passata una canzone piuttosto che una sinfonia o un quartetto.
Ovviamente non si tratta di decidere cosa è meglio tra questi due mondi.
Si tratta di saper abitare la plasticità della musica essendo consapevoli della diversità di tutte le sue pratiche.
La musica leggera ricopre una funzione fondamentale, ma attenzione a chiamarla troppo frequentemente “arte”.
Si sente sempre più spesso dire che una cosa che provoca emozioni è arte, al che mi viene sempre voglia di rispondere che se le cose stanno così allora la suprema forma d’arte è la droga.
Trovo invece interessante rapportarsi alle tre caratteristiche che secondo il grande musicologo francese Jean Jacques Nattiez contraddistinguono un’autentica opera d’arte musicale: complessità, coerenza e intensità.

*Matteo Manzitti (Genova 1983), compositore di musica.
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Commenti (1)
  • Alan
    Quanta arroganza e prosopopea !! Questo signore è nato nel 1983 - come si evince dai dati riportati sopra - ma appare il degno rappresentante di una cultura 'accademica' stantia quanto gelosa di chissà quale privilegio dinastico. Nei Paesi anglosassoni - che frequento - i professori universitari di Yale e Princeton per non dire del Berklee College o di Tanglewood, suonano jazz, rock e avanguardia extra colta. Si informi !
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