Politicamente correttissimo
L'uso sderenato della dottrina non può coprire le pudenda del governo

Luigi Manconi
1-    Gli esponenti del centro-destra sono furiosamente impegnati, in queste ore, a proclamare  principi e regole del garantismo a proposito della nuova inchiesta giudiziaria su Silvio Berlusconi.
Mentre giustizialisti e manettari di antico lustro si trasformano all’istante in altrettanti Cesare Beccaria, fioccano frasi vibranti come “vale sempre la presunzione di innocenza” e “i diritti dell’indagato sono sacri”. Ne avessimo visto uno anche uno solo, di questi garantisti alla coque, sollevare un dubbio, un’eccezione, un sopracciglio, quando venivano varate norme discriminatorie e autoritarie contro immigrati e tossicomani, povericristi, e outsider: ma anche contro chiunque gli dica male (fosse pure un manager della Telecom). Ce ne fosse stato uno, anche solo uno.

2-    A sentire Giuliano Ferrara, ma anche (dico così, per buttarla in caciara) Maurizio Lupi, sembra che i più fervidi apologeti di Berlusconi trascorrano le loro esistenze in una comune berlinese protofemminista, insieme a Severino Antinori, Yolanda Princesa de Bahia e Deleuze&Guattarì. Solo così può spiegarsi l’ossessivo riferimento a un mondo dove, a parere di Ferrara, “ogni desiderio diventa un diritto”, e dove trionferebbero “il relativismo etico” e “il soggettivismo nichilista”. E il tutto viene attribuito niente meno che alla “sinistra”. La quale sinistra, dopo  aver promosso tutto quel po’ po’ di “anarchismo desiderante”, si rivelerebbe cupamente bacchettona nei confronti degli irresistibili pruriti di Berlusconi. Questo sembra essere l’assunto teorico e la linea di difesa adottata da tutti, ma proprio tutti, gli amici del premier. Ovvero non sarebbe legittimato a criticare lo stile di vita di Berlusconi chi, poniamo, è favorevole alla legge 194 sull’aborto e, magari, alla pillola RU486. Con sofisticati argomenti dottrinari o con mezzucci sderenati, da monsignor Luigi Negri fino a Carlo Giovanardi (un cristiano privo di pietas e di un vocabolario appena appena decoroso), è tutto un fiorire di “realismo teologico” (“il cristianesimo non è un codice etico”) e di vocazione al servaggio (“Berlusconi è uomo immensamente generoso”). Pigliate uno come il ministro Gianfranco Rotondi, intelligente e simpatico, ma così mondano da apparire futile, e ascoltatelo mentre definisce l’intervento di Berlusconi presso la Questura di Milano come “una telefonata di carità”. E, così, quelle che pure sono grandi questioni (la fallacia del moralismo e di categorie come ipocrisia e coerenza) vengono ridotte a mediocri espedienti polemici, dove è assente qualunque consapevolezza dello spessore anche drammatico della vicenda: il rapporto tra immagine di sé e sua rappresentazione sociale, tra vitalità e declino, tra giovinezza e senescenza, tra potere e infermità e morte. A fronte di ciò, Rotondi, uno che riduce anche il concilio di Nicea a una gita fuori porta, descrive il Premier come una sorta di farfallone amoroso, prodigo e gioioso. E tenta di coprire goffamente, in nome della “laicità del cattolico” (Dio lo perdoni), le pudenda di Governo. Ferrara, ahilui, ha dato legittimità a un simile smottamento culturale – questo è il suo peccato mortale - quando ha inveito contro quegli intellettuali (da Barbara Spinelli a Enzo Bianchi) che, aspramente critici su Berlusconi, taccerebbero sulla “deriva nichilista e mortuaria della civiltà d’oggi, sul conformismo della trasgressione che avvilisce la maternità e la natalità, sulla manipolazione della vita e sulla distruzione di matrimonio e famiglia” (20 gennaio 2011). Qui c’è una vera e propria implosione logica. Perché: a- quella “deriva nichilista”, con tutto ciò che segue, davvero nulla ha a che vedere con le posizioni così ragionevoli di chi chiede il riconoscimento di diritti e libertà individuali, quali le unioni civili e il Testamento biologico; b- lo stile di vita e l’idea di sessualità che emergono dai comportamenti privati e pubblici del Premier appaiono strettamente coerenti proprio con quella “deriva nichilista”, fino a costituirne la più enfatica celebrazione. Ma se mi limitassi a evidenziare questa contraddizione, finirei anch’io col ridurre tutto a una misura meschina. E, invece, non c’è dubbio che la differenza tra morale e moralismo sia profonda quanto un abisso e, parafrasando, si può dire che il moralismo “è l’ultimo rifugio degli imbecilli”; che il cristianesimo non è in primo luogo un’etica, e tanto meno un’etica pubblica, bensì un’esperienza di fede e “l’incontro con Cristo”; che la coerenza (anche quella tra valori proclamati e comportamenti adottati) è categoria ambigua che si presta a mistificazioni e manipolazioni. E su tali concetti hanno lavorato, e si sono spaccati la schiena, filosofi e teologi: ma ora vederli manovrati, quei concetti, con tanta spregiudicata leggiadria, fa un po’ impressione e suona, come direbbe il premier, “turpe”. Tanto più che quella critica del moralismo e della coerenza, della fede ridotta a precettistica, dell’etica come galateo, viene affidata a persone palesemente inconsapevoli: incapaci, cioè, di comprenderne la complessità e, come si è detto, la drammaticità. Insomma, siamo all’ “Opera dei pubi” (Gianfranco Turchetti).


il Foglio 28 gennaio 2011
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