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E li chiamano clandestini
L'Unità 8 aprile 2011
Luigi Manconi
“Sono una riga nel mare fantasma nella città/ la mia vita è proibita, dicono le autorità,/ giro solo con la mia pena, la mia condanna va da sola,/fuggire è il mio destino,perché non ho documenti/ perso nel cuore della grande Babylon”.

Manu Chao, Clandestino, 2000

Questi i dati: dal 1988 a oggi, sono almeno 23.000 i morti in mare lungo le rotte che dalle coste settentrionali dell’Africa vanno verso   l’Europa, la Turchia e lo stretto di Gibilterra. E ciò significa 2,7 morti in quel tratto di mare, ogni giorno che Dio manda in terra. Sono cifre crudeli, approssimate per difetto. Ma già così dicono molto anche a proposito della tragedia di due giorni fa: e rivelano la miseria del nostro discorso pubblico e, prima ancora, del nostro linguaggio. Eccoli qui quelli che chiamiamo “clandestini”: i molti “sommersi” (250) e i pochi “salvati” (53), che mostrano impietosamente (impietosamente verso di noi questa volta) la torva vacuità del nostro vocabolario. Perché questi sarebbero i “clandestini”, secondo il termine che spadroneggia, indisturbato, in tutti i mezzi di comunicazione. Sarebbero clandestini, cioè, quanti, nella maniera più aperta e visibile, offrono al nostro sguardo, a quello delle telecamere e a quello delle forze di polizia, tutta intera la propria faccia, la propria nudità, la propria sofferenza. E, invece, niente di meno “clandestino” di quei volti, di quei corpi, di quelle esistenze che ci vengono incontro, quando non vengono fermate prima, su quelle imbarcazioni di fortuna. Clandestini i bambini annegati nella notte tra il 5 e il 6 aprile e clandestino quel Yeab Sera, nato il 25 marzo su un pezzo di legno in mezzo al Mediterraneo, da una donna in fuga dalla Libia. È pur vero che ci si premura di dire che questi ultimi, in quanto provenienti dall’Eritrea o dalla Somalia – a differenza dei tunisini - sarebbero profughi: e, dunque, meritevoli di una diversa accoglienza e del riconoscimento di una protezione umanitaria. Ma tale distinzione, anche se dotata di una base giuridica, risulta oggi approssimativa: tanto più quando i paesi di provenienza, come nel caso della Tunisia, pur non teatro di un conflitto bellico o di una guerra civile, sono connotati da profonda instabilità. Oggi, si può dire che la figura del profugo politico e del migrante economico tendono a sovrapporsi; e quel sottinteso di ipocrisia, che la distinzione prima ricordata rivela, mostra tutta la sua indecenza se consideriamo la natura del trattamento che nei fatti accomuna entrambi, profughi e migranti. E questo riguarda i sopravvissuti. Di quelli che non ce l’hanno fatta sappiamo molto poco. Tre morti al giorno ogni santo giorno sono, probabilmente, assai meno del numero reale. E, infatti, di molti naufragi e, prima, di molte fughe, non esiste alcuna documentazione. D’altra parte, una percentuale elevatissima di quei morti  (intorno al 50%) viene classificata alla voce “dispersi”, ovvero cadaveri mai più ritrovati, senza un nome e una tomba. Tutto ciò rivela come il discorso pubblico sulle migrazioni si fondi su una costruzione ideologica. Basti ricordare che: a. gli sbarchi a Lampedusa  hanno costituito, in questi anni, appena il 5% del complesso degli ingressi irregolari; b. una volta bloccato l’accesso a Lampedusa, a partire dalla seconda metà del 2009, i flussi via mare si sono indirizzati verso la Puglia, la Calabria, la Sardegna; c. una quota cospicua di quanti approdano sulle nostre spiagge è costituita da profughi, destinati a ottenere – come poi avviene per molti - lo status di rifugiati. E qui non è inutile ricordare un altro dato significativo. Tutti, ma proprio tutti, hanno trovato comodo richiamare la responsabilità dell’Unione Europea e la necessità di un impegno comune. Sarà pur vero, ma consideriamo alcune cifre inequivocabili, che confermano l’eccezionale avarizia del nostro paese.  In Francia (65milioni di abitanti) al 31 dicembre 2009 erano presenti 196384 rifugiati; in Germania (83 milioni di abitanti) 593799; nel Regno Unito (popolazione di quasi 60 milioni) 269363. In altre parole, i “parenti d’oltr’Alpe”, oggi nuovamente “serpenti”, ospitano – con una popolazione appena superiore - un numero di rifugiati più di tre volte maggiore del nostro (54985). E se consideriamo un altro dato, lo scenario non cambia. Solo la Francia presenta una percentuale di immigrati (rispetto all’intera popolazione) inferiore a quella italiana, mentre l’Inghilterra e la Germania, accolgono una percentuale di immigrati maggiore della nostra. E per conoscere la qualità del trattamento riservato ai profughi in Italia, è sufficiente visitare uno degli “insediamenti informali” presenti a Roma: al binario 15 della stazione Ostiense, da anni vive, si fa per dire, un centinaio di profughi afghani.
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