Clerico-fascisti
Politicamente correttissimo
Luigi Manconi
Nel discutere il saggio di Adriano Prosperi (“Eresie e devozioni”, Edizioni di Storia e Letteratura 2010), Giuliano Ferrara espone meglio di quanto abbia mai fatto, l’ispirazione profonda e la prospettiva strategica del proprio essere un “ateo devoto” (il Foglio, 30 giugno 2010).
E finalmente una formula che, a ben vedere, nulla ha di denigratorio può essere utilizzata per definire precisamente una legittima – ancorché biasimabile - teologia politica. Ferrara individua all’origine delle posizioni di Prosperi, che radicalmente (e pur rispettosamente) contesta, la seguente affermazione: in Italia è mancata “la concezione dello spazio pubblico come distinto e separato dalle private concezioni religiose”. Da questa elementare e fin ovvia constatazione, Ferrara ricava l’idea che per Prosperi e per i “laici protestanti” e, prevedibilmente per molti altri (credenti e non), la fede si riduca a un bene “da tenere gelosamente per sé soli, precludendole l’accesso nello spazio razionale, intersoggettivo, della società civile e dello stato”. Mi sembra un grave errore di interpretazione (ma sarà Prosperi a dirlo, se crede). Personalmente ritengo che Ferrara ignori un termine chiave dell’enunciazione di Prosperi: quello di distinzione. Distinzione, va da sé, non significa esclusione e, tanto meno, negazione o annullamento. Significa, appunto, distinzione: ovvero capacità di garantire autonomia tra sfere che non coincidono e di assicurare reciproco rispetto nella differenza tra ambiti di competenza ed esperienza non sovrapponibili. Ma ciò non significa in alcun modo negare il fatto che la fede possa avere (a mio avviso: debba avere) un suo spazio e una sua agibilità, piena e libera, nella sfera pubblica. La fede in forma di vissuto catacombale non è, come sembra dire Ferrara, un’opzione confessionale, propria del protestantesimo: è, piuttosto, la condizione coatta dell’età delle persecuzioni. E solo una lettura grottesca e meschinamente ideologica può affermare sul serio che oggi la Chiesa Cattolica sia - in Italia e in Europa - vittima di persecuzione. Esempio. L’inchiesta della magistratura belga, con le sue nequizie, è stata l’espressione di un’attività giudiziaria capace – lì come in altri paesi europei – di trascendere in vere e proprie forme di accanimento autoritario e antigarantista: in questo caso contro la chiesa, in altri contro soggetti, individuali o collettivi, religiosi o laici. Si tratta, insomma, di una crisi generale delle garanzie dell’Habeas Corpus più che di un pregiudizio antireligioso. E, soprattutto, la chiesa da quella “persecuzione giudiziaria” non esce certo in catene, bensì ottiene maggiore solidarietà. Chi scrive che nessuno avrebbe “protestato” contro quell’ingiustizia” ripete pigramente uno stereotipo, negato in tutta evidenza dalla stessa cronaca. La chiesa è sì oggetto di conflitto, ma esattamente come è soggetto di conflitto. È istituzione controversa e contestata, in ragione del fatto che, a sua volta, contraddice e contesta: com’è legittimo e sacrosanto che faccia.  Ma il suo essere soggetto e oggetto di conflitto e di godere di uno spazio autonomo nella sfera pubblica è, in realtà, l’esatto contrario della teologia politica del Foglio. Che intende la fede cattolica come occasione di “politicizzazione del fatto religioso”. La premessa è che “l’unità del popolo italiano ha una radice nel cattolicesimo tridentino e nella pratica sociale delle forme rituali e istituzionali in cui si esprime l’appartenenza a una religione”. D’accordo persino su questo: ma quella “unità del popolo” da mezzo secolo, e forse più, si è articolata in numerose sottoculture e si è secolarizzata, dando luogo non alla scristianizzazione violenta della società, bensì alla sua laicizzazione. Come distinzione, appunto, tra la sfera pubblica dell’agire politico e la sfera pubblica dell’esperienza religiosa: e, ancora, come distinzione tra l’opzione di fede in campo morale e la scelta politica nel campo delle decisioni pubbliche relative ai beni comuni (compresi quelli a contenuto etico).  Tutto ciò non piace al Foglio, che vorrebbe ripristinare quella “unità del popolo” intorno a un cattolicesimo che – ironia della sorte – sarebbe ridotto a “religione civile” proprio dai suoi più recenti apologeti. Questa, tuttavia, è una “guerra culturale”. E allora guerra sia. Ma mentre tutto ciò accade nel cielo procelloso della teoria, si ha un ridicolo cortocircuito: la componente neopagana del Pdl, che fu  Forza Italia, opera perché la politicizzazione del “fatto religioso” avvenga come traduzione del “senso comune cattolico” mondanizzato in instrumentum regni di una politica di destra attraversata da tentazioni che non è esagerato definire schiettamente “clerico-fasciste”. Insomma, uno sta lì che si arrabatta per capire e discernere, configgere e approfondire, ed ecco arrivare le roccelle  e i giovanardi, e anche quelli che hanno qualche titolo culturale e accademico in più, e la buttano in caciara. E fanno finta di conoscere ciò di cui parlano solo perché monsignor Rino Fisichella ammicca loro, mellifluo. Questi non sono nemmeno “atei devoti”: sono devoti, ma decche?
il Foglio 6 luglio 2010
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