La questione immorale
Luigi Manconi
Se quella del carcere è, in tutta evidenza, una fondamentale questione politica e morale, perché mai, a interessarsene, sono pressoché esclusivamente i pontefici della Chiesa cattolica e i Radicali? Una possibile risposta risiede nel fatto che la politica, nella migliore delle ipotesi, considera il carcere un problema umanitario. Il che corrisponde al vero, ma rischia di delegare la questione a una dimensione volontaristica e, tutto sommato, sentimentale: roba per “anime belle” e per chi abbia “un cuore grande così”. E invece, come si è detto, è questione innanzitutto politica. Per due ragioni: perché riguarda il rapporto tra cittadino e Stato in quello che è il suo nodo cruciale: la libertà personale. In altre parole, lo Stato, le istituzioni e la politica, trovano il fondamento della loro legittimazione giuridica e morale nella capacità o meno di tutelare la libertà dei cittadini e di garantire che la privazione di quel bene supremo (la libertà, appunto) avvenga solo quando strettamente indispensabile, nelle condizioni e nei limiti previsti dalla legge. Tutto ciò che neghi questa impostazione, finisce col delegittimare Stato e istituzioni. Ma c’è un’altra ragione che rende politicamente decisivo il problema del sistema penitenziario. Ed è il fatto che quelle celle sovraffollate e promiscue, miserabili e alienanti, rappresentano l’appendice finale – la più dolente e intollerabile – della crisi complessiva della giustizia in Italia. Quelle celle sono la spia più eclatante del collasso dell’intero sistema dell’amministrazione della giustizia: e ci parlano dell’intasamento dei tribunali e di un codice penale vetusto, della drammatica carenza di risorse di personale e della macchinosità dei dibattimenti. Ecco, in quei letti accatastati e in quei cessi davanti ai fornelli, c’è la rappresentazione non solo di una condizione umana diventata disumana, ma anche di un funzionamento generale della giustizia (tutta, compresa quella civile), tanto lenta fino all’estenuazione quanto insipiente fino all’ottusità. Dunque, quando Bendetto XVI afferma che il sovraffollamento è una “doppia pena” sta dicendo, e lo fa anche esplicitamente, che è la stessa idea di pena e, pertanto, di tribunale e di giustizia, che va ripensata. Tutto questo è contenuto, nei termini considerati possibili, nei provvedimenti annunciati dal ministro della Giustizia Paola Severino. Misure che vanno tutte nella giusta direzione – anche se, a mio parere, con eccessiva lentezza - e che alludono a un progetto di riforma della giustizia e del sistema penitenziario, assai lungimirante, razionale e intelligente. Prevedibile la reazione della Lega, di alcuni settori del Pdl e dei giornali di destra che – coerentemente con una pulsione forcaiola mai doma - titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà”. Non c’è da stupirsi: per questi ultimi la categoria di habeas corpus riguarda esclusivamente il perimetro del corpo del Sovrano. Sorprende, piuttosto, la risposta di molti segmenti del centro sinistra. Approvazione da buona parte del Pd, ma aggressiva ostilità dall’Italia dei Valori. Per quest’ultimo partito  l’argomento, espresso in termini non proprio da giure consulti, sarebbe il seguente: il provvedimento che consente di scontare in detenzione domiciliare la pena di diciotto mesi, costituirebbe “una amnistia preventiva e selettiva”, dal momento che non verrebbero esclusi i reati dei colletti bianchi (corruzione e falso in bilancio). Una simile affermazione si presta magnificamente a illustrare quale sia il significato anche morale di un discorso sul carcere. Innanzitutto perché si trascura il fatto che la detenzione domiciliare è propriamente detenzione: privazione della libertà, appunto. Dimenticarlo, per ignoranza o per calcolo, segnala l’immoralità di quelle posizioni, oltre che il loro connotato inequivocabilmente reazionario. Ma ancor più immorale è la motivazione  addotta. Se la mia azione tesa a emancipare (o liberare o soccorrere) dieci persone, può portare alla emancipazione di uno o due che non lo meritino, moralità è correre il rischio del bene. Che, dovrebbe saperlo pure chi non ha letto Sant’Agostino, contiene sempre al proprio interno anche il male. Se per evitare di beneficiare un manigoldo, evito di prestare aiuto, o anche solo di ridurre la sofferenza, di altri, incorro nel massimo di immoralità. Anche politica.
l'Unità 19 dicembre 2011
La questione immorale
Luigi Manconi
Se quella del carcere è, in tutta evidenza, una fondamentale questione politica e morale, perché mai, a interessarsene, sono pressoché esclusivamente i pontefici della Chiesa cattolica e i Radicali? Una possibile risposta risiede nel fatto che la politica, nella migliore delle ipotesi, considera il carcere un problema umanitario. Il che corrisponde al vero, ma rischia di delegare la questione a una dimensione volontaristica e, tutto sommato, sentimentale: roba per “anime belle” e per chi abbia “un cuore grande così”.
E invece, come si è detto, è questione innanzitutto politica. Per due ragioni: perché riguarda il rapporto tra cittadino e Stato in quello che è il suo nodo cruciale: la libertà personale. In altre parole, lo Stato, le istituzioni e la politica, trovano il fondamento della loro legittimazione giuridica e morale nella capacità o meno di tutelare la libertà dei cittadini e di garantire che la privazione di quel bene supremo (la libertà, appunto) avvenga solo quando strettamente indispensabile, nelle condizioni e nei limiti previsti dalla legge. Tutto ciò che neghi questa impostazione, finisce col delegittimare Stato e istituzioni. Ma c’è un’altra ragione che rende politicamente decisivo il problema del sistema penitenziario. Ed è il fatto che quelle celle sovraffollate e promiscue, miserabili e alienanti, rappresentano l’appendice finale – la più dolente e intollerabile – della crisi complessiva della giustizia in Italia. Quelle celle sono la spia più eclatante del collasso dell’intero sistema dell’amministrazione della giustizia: e ci parlano dell’intasamento dei tribunali e di un codice penale vetusto, della drammatica carenza di risorse di personale e della macchinosità dei dibattimenti. Ecco, in quei letti accatastati e in quei cessi davanti ai fornelli, c’è la rappresentazione non solo di una condizione umana diventata disumana, ma anche di un funzionamento generale della giustizia (tutta, compresa quella civile), tanto lenta fino all’estenuazione quanto insipiente fino all’ottusità. Dunque, quando Bendetto XVI afferma che il sovraffollamento è una “doppia pena” sta dicendo, e lo fa anche esplicitamente, che è la stessa idea di pena e, pertanto, di tribunale e di giustizia, che va ripensata. Tutto questo è contenuto, nei termini considerati possibili, nei provvedimenti annunciati dal ministro della Giustizia Paola Severino. Misure che vanno tutte nella giusta direzione – anche se, a mio parere, con eccessiva lentezza - e che alludono a un progetto di riforma della giustizia e del sistema penitenziario, assai lungimirante, razionale e intelligente. Prevedibile la reazione della Lega, di alcuni settori del Pdl e dei giornali di destra che – coerentemente con una pulsione forcaiola mai doma - titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà”. Non c’è da stupirsi: per questi ultimi la categoria di habeas corpus riguarda esclusivamente il perimetro del corpo del Sovrano. Sorprende, piuttosto, la risposta di molti segmenti del centro sinistra. Approvazione da buona parte del Pd, ma aggressiva ostilità dall’Italia dei Valori. Per quest’ultimo partito  l’argomento, espresso in termini non proprio da giure consulti, sarebbe il seguente: il provvedimento che consente di scontare in detenzione domiciliare la pena di diciotto mesi, costituirebbe “una amnistia preventiva e selettiva”, dal momento che non verrebbero esclusi i reati dei colletti bianchi (corruzione e falso in bilancio). Una simile affermazione si presta magnificamente a illustrare quale sia il significato anche morale di un discorso sul carcere. Innanzitutto perché si trascura il fatto che la detenzione domiciliare è propriamente detenzione: privazione della libertà, appunto. Dimenticarlo, per ignoranza o per calcolo, segnala l’immoralità di quelle posizioni, oltre che il loro connotato inequivocabilmente reazionario. Ma ancor più immorale è la motivazione  addotta. Se la mia azione tesa a emancipare (o liberare o soccorrere) dieci persone, può portare alla emancipazione di uno o due che non lo meritino, moralità è correre il rischio del bene. Che, dovrebbe saperlo pure chi non ha letto Sant’Agostino, contiene sempre al proprio interno anche il male. Se per evitare di beneficiare un manigoldo, evito di prestare aiuto, o anche solo di ridurre la sofferenza, di altri, incorro nel massimo di immoralità. Anche politica.
l'Unità 19 dicembre 2011
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